Alla base della nostra idea dell’amore ci sono una serie di concetti ed equilibri che abbiamo imparato più o meno inconsciamente a rispettare. L’unicità dell’amore, la sacralità e la sincerità di esso, una certa riservatezza nelle sue espressioni, la sua nobiltà e il suo essere fine a se stesso. Tutti questi concetti derivano in gran parte dalla letteratura, e in particolar modo dalla letteratura provenzale del XII secolo e dai suoi successivi sviluppi. In questo contesto nacque il cosiddetto amor cortese.
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La vita di corte nel Medioevo
Intorno al 1110, nella vita di corte di quattro regioni francesi – l’Aquitania, la Provenza, Champagne e il ducato di Borgogna – nacque e si sviluppò il concetto di amor cortese. Alla base di esso, come appare ovvio, c’è la vita di corte; è impossibile pensare all’uno senza fare riferimento all’altra. Contestualizzare e delineare i contorni dell’ambiente in cui e di cui essi si nutrono vuol dire innanzitutto comprenderne il profondo rapporto di dipendenza, su un piano storico, sociale e culturale.
Le corti del XII secolo sono il prodotto di una società di impianto feudale, i cui incrollabili valori si inseriscono all’interno di un continuo do ut des nelle relazioni sociali. Non a caso, il sistema fondante dell’amministrazione feudale, che si basava su una frammentazione quantomeno rischiosa del potere e del territorio statale, necessitava un solido codice etico e comportamentale al quale fare affidamento.
I ruoli
All’interno della società i ruoli erano nettamente divisi e strettamente interdipendenti. I feudatari ricevevano dal re, o da un nobile di rango superiore, un territorio più o meno esteso da gestire o organizzare come proprio. Nella solenne cerimonia di investitura, il vassallo doveva però rendere omaggio al suo signore, inginocchiandosi ai suoi piedi e promettendogli, in cambio, il consilium, cioè la collaborazione attiva nell’amministrazione dello stato in tempo di pace, e l’auxilium, cioè la partecipazione concreta a suo sostegno nel corso di eventuali conflitti.
La corte, che era il centro amministrativo e politico del signore, e la sua dimora privata, diventava anche la fonte primaria e in certi casi unica di emanazione culturale. Al suo interno, quel delicato rapporto di dipendenza e quel sacro equilibrio di favori e concessioni sui quali si basava l’organizzazione politica si trasferiscono in ogni ambito della vita quotidiana. È così che nasce l’amor cortese.
La dialettica imprescindibile signore-vassallo è trasposta e nobilitata sul piano amata-amante.
Andrea Cappellano e l’amor cortese
Intorno al 1185 Andrea Cappellano scrisse, alla corte di Eleonora d’Aquitania, il celeberrimo trattato De Amore (libri tres). Quest’opera è intessuta di rimandi ovidiani reinterpretati alla luce dei valori della società in cui l’autore operava. Fu lui il primo a decodificare in maniera analitica le caratteristiche del fin’amor.
La “mezura”
Alla base di questo vi è una ambivalenza, fondata sulla compresenza di desiderio sessuale inappagato e tensione spirituale nobilitata e nobilitante. Questa ambivalenza è definita mezura, cioè “misura”, ovvero la giusta distanza tra sofferenza e piacere.
La mezura è causa e conseguenza di molte altre caratteristiche dell’amor cortese. Essa deriva, infatti, dal fatto che il desiderio dell’amante di possesso fisico dell’amata rimarrà sempre inappagato; non solo perché il primo offre alla seconda i suoi servigi senza pretendere né desiderare nulla in cambio, ma anche e soprattutto perché l’amata è inevitabilmente legata ad un altro uomo da un vincolo coniugale. Altro uomo che spesso o quasi sempre è proprio il signore cui l’amante ha giurato eterna lealtà.
L’amore adultero
È così inevitabile che il fin’amor sia sempre e comunque amore adultero. Addirittura, Cappellano arriva a teorizzare che il matrimonio sia solo un mero contratto stipulato per ragioni economiche e dinastiche – realtà fin troppo plausibile nella società cortese.
Naturalmente, amare una donna che non poteva essere amata comportava un rischio notevole. Da qui deriva l’obbligo alla riservatezza del fin’amor, che esigerà sempre segretezza. Per questo, i poeti cantori dell’amor cortese, ossia i trovatori provenzali, nelle loro liriche non citano mai direttamente l’amata o comunque non ne segnalano il vero nome.
“Quando si rende pubblico, un amore raramente dura”
(Andrea Cappellano, De Amore, II, IV).
Il conflitto tra fin’amor e sacralità
Il fin’amor tuttavia non ha affatto connotati né pretese di purezza sacrale. Seppur inappagato, il desiderio sessuale c’è, e la sensualità e le note erotiche che accompagnano la sua espressione poetica sono al contempo per l’amante salvifica illusione e terribile tortura.
La mezura è quindi anche la causa di un conflitto paradossale tra religione e amore – e non solo per la sacralizzazione e la nobilitazione del peccato d’adulterio.
Il culto della donna
Altro territorio di conflitto tra amore e religione è infatti il culto della donna, che viene sublimata dall’amante e quasi divinizzata. La conseguente inferiorità dell’uomo rispetto alla donna amata, infine, provoca un’obbedienza cieca e totale: è il cosiddetto servizio d’amore.
Il paradosso dell’amor cortese sarà poi sviluppato nel corso dei secoli finché gli stilnovisti, e in particolar modo il Dante della Commedia ma in primo luogo della Vita Nova, riusciranno ad accordarne le inconciliabilità.
Beatrice Morra