Dante Alighieri è universalmente riconosciuto come il più grande poeta di tutti i tempi. La sua fama è strettamente connessa al testo madre della letteratura italiana, la Commedia ( chiamata in un secondo momento divina ), ma non solo. Ha enormemente contribuito alla formazione della nostra lingua, risollevandola dal caos in cui era piombata in seguito alla frammentazione del latino.
Tra gli innumerevoli dialetti italiani aveva scelto il toscano, l’unico a suo avviso degno di essere considerato la nuova lingua di cultura insieme al latino – da cui non si poteva comunque prescindere. La sua esperienza è stata presa a modello dai poeti successivi, e nonostante siano stati consumati nel corso del tempo fiumi di inchiostro circa la sua poetica, ancora oggi sembra che non è stato abbastanza. In questo numero di Storia della letteratura vogliamo ripercorrere i punti salienti della sua attività, focalizzandoci sulle altre opere oltre alla celeberrima Divina Commedia.
Dante Alighieri: la politica e l’amore
Dante Alighieri, com’ è noto, è nato nella Firenze del 1265, in un ambiente politico/ culturale in fermento. La città era divisa internamente dagli scontri tra i Guelfi Bianchi ( di cui Dante faceva parte ) e i Guelfi Neri, manovrati da Papa Bonifacio VIII che voleva estendere l’ influenza della Chiesa anche in Toscana. E quando i Neri s’ impossessarono di Firenze, Dante fu condannato per baratteria. Non trovandosi in città in quel momento, il processo si svolse in contumacia, e così iniziò il suo esilio presso le corti signorili italiane.
I fatti politici non avevano impedito a Firenze di imporsi come centro culturale, anzi, raccogliendo l’eredità della scuola siciliana, si era andata consolidando quella corrente di pensiero passata poi alla storia della letteratura come dolce stil novo. Ma se in un primo momento Dante abbracciò tale tendenza, la morte della sua donna angelicata, Beatrice, ne segnò il definitivo distacco.
Raccolse tutte le liriche d’ amore a lei dedicate in una sola opera, la Vita nuova, che di fatto racconta dei loro incontri, sempre furtivi, e dell’ eccezionalità di tale sentimento che era riuscito a rendere Dante Alighieri un uomo migliore, intellettualmente parlando. Ma come spiegare la sua volontà di accantonare per un momento l’esperienza amorosa e dedicarsi ad altri temi? Dante aveva il suo stile, e così nell’ ultimo capitolo della Vita nuova dice di aver avuto una mirabile visione che gli suggerisce di non parlare più di Beatrice fin quando non avesse trovato una maniera più degna.
Volgare sì, volgare no
Come abbiamo già accennato, a Dante Alighieri garbava l’ idea di utilizzare il volgare, e sono due le opere in cui ne parla: il Convivio e il De vulgari eloquentia. La prima doveva essere una vera enciclopedia, comprendente ben quindici trattati, in cui Dante voleva esporre la propria posizione in merito non solo a fatti propriamente di cultura, ma anche alla situazione politica del suo tempo; riuscì però a comporne quattro, scritti in volgare e destinati a tutti colori che non avevano potuto studiare –il latino, s’ intende.
Opera popolare, dunque? Niente affatto. La grande novità di Dante consiste proprio nel rivalutare il concetto di nobiltà, intesa non più come status sociale a cui era tradizionalmente associato anche un certo grado di cultura, ma come una condizione morale raggiunta per meriti personali. Questa idea, assolutamente all’ avanguardia considerando che stiamo ancora nel medioevo, cozzava con tante cose, prima fra tutte il fatto che la cultura fosse monopolio della Chiesa, e perfino con la teoria di Federico II, sostenitore della nobiltà come prerogativa di nascita.
Nel De vulgari eloquentia la situazione cambia. Il concept è sempre lo stesso, ovvero dare fama alla lingua volgare, ma poiché quest’ opera è un trattato retorico volto a standardizzare un codice linguistico, è scritto in latino. Non è una contraddizione, bensì la chiara intenzione di rivolgersi ai tradizionali dotti, e stabilire una volta e per sempre le norme che ne regolano l’ uso. Serve, dunque, un volgare che sia illustre ( stilisticamente alto ), aulico e curiale ( degno di essere parlato in una corte ) e cardinale ( tutti i dialetti municipali dovrebbero prenderlo a modello ).
Potere monarchico, potere ecclesiastico
Il rapporto fra Stato e Chiesa è sempre stato un argomento scottante, e anche Dante Alighieri ne sapeva qualcosa. Questo tema è stato affrontato nel De monarchia, opera suddivisa in tre libri e scritta in latino. Con tocco sapiente ed efficace, Dante espone di nuovo la sua visione delle cose, che in questo caso coincide con la separazione dei due poteri, che pur discendendo direttamente da Dio, sono entrambi autonomi ma essenziali per la comunità, in quanto uno si preoccupa della salvezza delle anime e l’ altro dei diritti civili.
Anche stavolta possiamo definire la sua posizione piuttosto all’ avanguardia, in quanto la teoria più accreditata nell’ Europa medievale era sicuramente la subordinazione dell’ Impero alla Chiesa. Dante Alighieri aveva parlato di separazione di poteri, di due soli con aree di competenza diverse, pur essendo nella loro totalità parte della creazione divina. Ma la riflessione politica aveva portato Dante Alighieri alla conclusione che, data la pessima condizione in cui verteva l’ Italia, era necessaria una monarchia universale, che stesse al di sopra di tutti gli altri regnanti, in modo tale da garantire la giustizia e porre fine a tutte quelle lotte che stavano devastando l’ Italia in primis.
È chiaro che non tutti potevano aspirare a un così arduo compito, o si sarebbe ottenuto il risultato contrario, e Dante Alighieri vede nella figura di Enrico VII di Lussemburgo il candidato ideale. Alla notizia della sua discesa in Italia è fiducioso e a lui dedica anche dei versi del Paradiso.
Roberta Fabozzi