Priapo è il dio greco della fertilità. Viene tradizionalmente rappresentato con un fallo enorme e un corpo deforme. Quest’ultimo, secondo la leggenda, dovuto ad un maleficio di Era, gelosa dell’amore tra Zeus ed Afrodite, di cui era frutto (altri miti, invece, ne attribuiscono la paternità a Dioniso o Adone).
Probabilmente il nome deriva da un composto di peos, per l’appunto pene, la cui abnormità caratterizza il dio. Proprio per questo motivo la letteratura medica utilizza il termine priapismo per indicare un’erezione persistente e anomala, spesso dolorosa, dei soli corpi cavernosi del pene, non accompagnata dal consueto desiderio sessuale.
Statue lignee del dio, dipinte di rosso, venivano poste nei campi e fuori le case, al fine di propiziare il successo del raccolto, l’abbondanza del bestiame e, soprattutto, la felice continuità della famiglia. Ma quei busti mostruosi servivano anche a tenere lontani animali indesiderati, in primis passeri e sparvieri.
Nell’iconografia classica Priapo si accompagna spesso ad un asino, animale, certo, di notevole peso nell’economia contadina, ma che meglio di altri si presta a facili allusioni alla spropositata virilità del dio. Il mito vuole che sia stato proprio Priapo a pretendere l’animale in sacrificio, dopo che questo, secondo due diverse leggende, una greca ed una romana, ebbe a svegliare col suo ragliare, rispettivamente, la ninfa Lotide e la dea Vesta, che la divinità stava provando a violare nel sonno. A Roma, infatti, nell’occasione della festa dedicata a Vesta, era usanza cingere il capo degli asini con fiori.
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Il culto di Priapo a Napoli
Nella città asiatica di Lampsaco sull’Ellesponto si trovava il suo centro culturale più importante: da qui il culto si diffuse in tutto il mondo greco, poi, in età ellenistica, anche in Italia.
La Campania, in particolare, fu teatro di un’intensa devozione per Dioniso e per il suo figlioccio. Qua, infatti, originarono le baccanali, feste mistiche celebrate in onore di Bacco, che ben presto si trasformarono in feste orgiastiche a cadenza quasi settimanale, occasioni di sfrenata immoralità e complotti politici: vennero, sì, abolite nel 186 a. C dal Senatus Consultum de Bacchanlibus, ma ben oltre tollerate.
Pompei era il cuore pulsante del licenzioso culto per Priapo, come è ben testimoniato dalle pitture e le sculture superstiti, ma questo resistette anche alla distruzione della città, causata dall’eruzione del Vesuvio del 79 d. C (non a caso salutata dai cristiani come una punizione del Divino).
Il greco nel napoletano
Il costume campano ancora oggi svela tracce significative di questi antichi culti. Il popolo napoletano, infatti, figlio consapevole della Magna Graecia, ha parlato greco fino al X secolo e tuttora in greco si ostina a ragionare.
Difatti, i ragazzini partenopei non giocano a pallone, ma pazzeano (dal greco paizo), mentre le mamme sono al mercato ad accattare (dal ktaomai, comprare), chi lo sa, forse del prutusino per la minestra (petroselinon) oppure crisommole per il nonno un po’ esigente (l’albicocca, o meglio kruson melon- frutto d’oro). Mamme non di rado chiamate in causa quando una pallonata rompe un vaso, allora il custode potrebbe urlare ‘int’ â pucchiacca ‘e mammata (dal composto pyr kuros, cerchio di fuoco, oppure pyr koilos, incavo infuocato) e menare addirittura paccheri (pas keir, l’intera mano) se qualche figlio ‘e ‘ntrocchia gli risponde a tono (eh sì, quest’ultimo è un latinismo, da antorca -fiaccola-, strumento di lavoro utilissimo per tenere al caldo la propria personalissima fonte di guadagno.
Questa tenace resistenza ha strappato dall’oblio degli dei greco-romani le tradizioni religiose pagane, certo smussate, ma mai cancellate dall’imporsi della religione cattolica. Al contrario, nei secoli, le antiche pratiche liturgiche sono state adeguate al nuovo culto, talvolta conservando connotati feroci, a stento frenati dalle autorità religiose.
Elena Sica, nella monografia “Il presepe napoletano”, afferma che a Napoli la raffigurazione della Natività, che proprio in questa città, per la prima volta, aveva trovato compiuta rappresentazione, degenerava spesso e volentieri in lanci di scarti alimentari, coretti e sfottò di ogni sorta: insomma tali manifestazioni popolari erano più vicine alle falloforie (processioni solenni in onore di Priapo e Dioniso nelle quali si trasportavano enormi falli di legno) che ad una compostissima celebrazione del Signore.
La festa di Piedigrotta sulle macerie dell’antico tempio di Priapo
Il cornicello
Cosa meglio dell’usanza di accarezzare un corniciello portafortuna per allontanare il malocchio può confermare la sopravvivenza, ovviamente inconsapevole, del culto priapico? La forma falliforme, curva e non ritta, allude al portentoso membro del dio, che si presenta proprio con tale caratteristica. Il rosso, poi, richiama il colore in cui erano tradizionalmente dipinte le statuette raffiguranti Priapo.
Ottima alternativa al corniciello è il peperoncino rosso. Infatti non solo gli assomiglia per forma e colore, ma addirittura avrebbe il pregio di allontanare le malelingue con il sapore piccante.
La crypta neapolitana
Ma il caratteristico amuleto portafortuna non è l’unica, né la più evidente prova della sopravvivenza del culto di Priapo alla conversione al cristianesimo. Fino a qualche decennio fa, le sposine novelle affrontavano un vero e proprio pellegrinaggio propiziatorio nella Crypta Neapolitana. Questo è il luogo in cui, secondo accreditata tradizione filologica, Petronio ha ambientato la scena del Satyricon in cui i tre protagonisti del racconto – Encolpio, Ascilto e Gitone– assistono ad un rito priapico.
Proprio ai piedi della galleria scavata nel I secolo a. C. sotto la grotta di Posillipo per accorciare le distanze tra Napoli e Pozzuoli, si teneva, nel secolo scorso, la più imponente e sentita manifestazione popolare partenopea: la festa in onore della Madonna di Piedigrotta.
Qui la Madre di Dio poteva vantare una cappella antichissima, in cui si venerava la Madonna del Serpente o dell’Idra, perché vi era rappresentata mentre schiacciava il serpente-Demonio, in seguito trasformata nella chiesa di S. Maria di Piedigrotta ben prima del 1207.
Ma è addirittura nel III secolo che la celebrazione della Vergine prese il posto delle baccanali, mantenendone però i connotati sfrenati. La festa prendeva avvio nelle ore notturne e, come testimoniato da Eduardo De Crescenzo, Gino Doria e Raffaele Viviani, degenerava spesso in zuffe, scherzi volgari e baraonde sfrenate (ovviamente la Piedigrotta era anche tanto altro, ossia carri allegorici, fuochi d’artificio e una stupenda manifestazione canora).
Il pesce di San Raffaele
Il rituale del vaso a ‘o pesce ‘e San Rafele (bacio al pesce di S. Raffaele) testimonia ulteriormente la commistione tra i riti priapici e le pratiche cattoliche. Le ragazze da marito per secoli si sono recate nella chiesa omonima, nel rione Materdei, dedicata all’Arcangelo protettore dei pescatori napoletani, per baciarne il pesce, contenuto in una delle due mani, al fine di ottenere un matrimonio fecondo. Le autorità religiose hanno sempre tollerato il culto per la consolidata valenza simbolica del pesce nel messaggio cristiano, nonostante il chiaro riferimento sessuale al pene, al quale i napoletani alludono col termine pesce.
Se queste testimonianze non fossero sufficienti a dimostrare l’attualità del culto priapico, ci si accontenti dell’articolo della blogger americana Alex Schiller, dall’eloquente titolo Hai una vagina e vuoi darti da fare? Va’ a Napoli (titolo originale Have a vagina? Want to use it? Go to Naples), nel quale celebra i napoletani come i migliori amatori al mondo. O meglio, per sostenere la nostra tesi, i più fedeli seguaci del dio Priapo.
Bibliografia
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Sitografia
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Danilo De Luca