La gloria è un bagliore che fugge e lento si posa sulle corone. Al capo del re la corona di zaffiri e rubini, al capo della dama la corona di rose e di primule, al capo del poeta la corona d’alloro e di sangue. Sì, è il sangue motore dello slancio ed esito della fatica, lo stesso sangue che piove sulle coste e tra le righe dell’ Africa di Petrarca.
Africa di Petrarca, tra continuo lavoro e riferimenti
Iniziato durante il placido soggiorno a Valchiusa, nel 1338-1339, l’ Africa di Petrarca seguirà non solo la formazione interiore del poeta, ma l’intero percorso della sua formazione artistica. Accecato dalla perfezione, vittima di uno smodato e dolce Labor Limae (“dolce”, beninteso, giacché il continuo tornare su di un termine denuncia un amore per la creazione privo di eguali), Petrarca porterà stretto al suo fianco il caro Scipione fino alla fine.
Allo sguardo dei posteri sono giunti i primi nove libri dell’opera, l’Africa di Petrarca sembra essere versificazione della terza deca di Tito Livio. Ma non è solo la materia storica della seconda guerra punica a far tremare le pagine. Vivo nella mente di Petrarca è l’esempio virgiliano, il Virgilio della cara Eneide, del conflitto e della nebbia interiore. Possiamo dire che al ghiaccio e all’analisi delle vicende romane va legato il pianto reale della poesia intesa come riflessione.
Il languido slancio: la morte di Magone
E la terra santa del pensiero non è rappresentata dalle coste del Lazio, ma dal giaciglio ultimo del soldato morente. Questo l’inciso della morte del fratello di Annibale, Magone, apice di poesia, dai più ritenuta una vera pela tra la sabbia degli studi.
Ahi! quale termine è
dato a un’alta fortuna! Come s’acceca la
mente nei lieti successi! Una pazzia dei potenti
è questa, godere in un’altezza vertiginosa.
Ma quello stato è soggetto a innumeri procelle,
e chi s’è levato in alto è destinato a cadere.
Ahi, sommità vacillante dei grandi onori,
speranza fallace degli uomini, gloria vana rivestita
di falsi allettamenti. Ahimè, come incerta
è la vita, dedita a una fatica perpetua, come
certo è il giorno di morte, né mai previsto
abbastanza. Con che iniqua sorte è nato l’uomo
sulla terra! Gli animali tutti riposano; l’uomo
non ha mai quiete e per tutti gli anni
affretta ansioso il cammino verso la morte. E
tu sola, o morte, ottima tra le cose, scopri gli
errori, disperdi i sogni della vita trascorsa. Ora
vedo quante cose mi procacciai, oh! misero,
invano, quante fatiche mi addossai di mia
scelta, che avrei potuto tralasciare. Destinato
a morire, l’uomo cerca di ascendere agli
astri,ma la morte c’insegna quale sia il posto
di tutte le nostre cose [1]
Sembra quasi possibile godere il profumo del Rerum Vulgarium Fragmenta. E se Laura fu la donna del sonno violato, Scipione fu la lancia della veglia; l’esperienza individuale del percorso amoroso corre in un cerchio perfetto, il cerchio che vede la storia e la guerra tali quali il desiderio e la speranza. Il poeta non è più semplice versificatore, egli ha raggiunto uno stato supremo: il silenzio. Tace la cetra e tacciono le armate, da queste frasi s’impenna la cenere del tempo.
La Gloria e il Tempo
Dedicato a Roberto d’Angiò, l’ Africa di Petrarca sancirà il successo del poeta di Arezzo, tanto da condurlo alla ben conosciuta incoronazione in Campidoglio. Le grida di giubilo e il piacere della fama si piegheranno presto a ben altri orizzonti, quella sfumata aurora di analisi interiore. Ma l’agone non si svolge solo tra gli scudi, esso si gioca alla chiusa del libro.
– Che fai alma? che pensi? avrem mai pace?
avrem mai tregua? od avrem guerra eterna? -[2]
Silvia Tortiglione
[1] Petrarca; Africa, VI, 885-918
[2] Petrarca; Rerum Vulgarium Fragmenta CXVIL