David Fincher non è nella lista dei grandi autori di lungometraggi virtuosi, ma ha il suo perché: maestro dell’intrattenimento e dello zoom sulla sfera psichica, rende ogni sua pellicola una bolla di immagini nette e personaggi interessanti.
Il primo David Fincher
David Fincher comincia la sua carriera da regista con il terzo episodio della saga di Alien, “Alien³” (1992), pellicola nata dopo una travagliata pre-produzione fatta di cambi di direzione e di sceneggiatura, nel più che ostinato tentativo di battere il ferro finché era caldo. Fincher, comunque, benché avesse pochissima esperienza alla regia e si fosse occupato più che altro di effetti visivi, benché questa sua prima volta dietro la cinepresa fosse tutt’altro che portatrice del suo marchio (e, con la politica di produzione che c’è dietro, ci mancherebbe) ebbe la sua rampa di lancio.
Poté dirigere “Seven” (1995), iconica scossa al mondo cinematografico che spalancò la strada ai serial killer con una scaletta di omicidi a tema, e che, insieme a “I soliti sospetti”, stuzzicò il gusto del finale inaspettato, nonostante l’eredità lasciata non abbia portato a risultati entusiasmanti. Partecipano al progetto Brad Pitt e Morgan Freeman, oltre naturalmente al volto chiave dei due film appena citati: Kevin Spacey.
Con il suo terzo lavoro, David Fincher comincia a definire il proprio stile, anche se solo per linee tratteggiate. Si tratta di “The Game – Nessuna regola” (1997), con Michael Douglas e Sean Penn. Tralasciando l’evidente propensione di Fincher per attori di notevole calibro, ciò che possiamo ritenere significativo è la già evidente capacità di rendere tutto molto “denso”: vuoi per la fotografia satura fino ad essere greve e melmosa, vuoi per la sottile calma con cui la tensione sale, vuoi per l’esattezza del mostrato, crudo o cullante sempre secondo ciò che razionalmente e verosimilmente deve essere… il risultato è un’autorità granitica di pellicole che si prendono molto sul serio… pur magari non meritandolo.
Il David Fincher della documentazione e della sperimentazione
Se c’è qualcos’altro, poi, che a David Fincher probabilmente piace, è riportare le reazioni umane a situazioni particolari e in qualche modo artificiosamente architettate. Una sorta di sperimentatore sociale?
Nel 1999 dirige “Fight Club”, altro super-cult d’inizio millennio, tappa obbligatoria quasi a livello etico e citato fino alla nausea come modello di reazione che la società capitalistica assoggettante merita. Naturalmente è il film preferito delle migliori generazioni di figli del capitalismo, ma non è sede per discuterne: qui si deve dire che Fincher conosce bene il suo mestiere. Capiamoci: non c’è nulla di estremamente caratteristico in lui. Non è prepotente come potrebbe esserlo un Cronenberg o un Anderson, che si impongono al pubblico e se gli piace bene, altrimenti va bene lo stesso. David Fincher è accomodante, la sua regia è fluida, coinvolgente, accattivante. Sa essere un incantatore perché non trasmette nulla di difficile ma, anzi, fa sentire lo spettatore intelligente.
“Panic Room” (2002) e “Zodiac” (2007) confermano quanto già detto. Quasi giocasse con dei burattini, Fincher pone dei personaggi tratteggiati piuttosto bene in situazioni costruite ad hoc per osservarne le reazioni, modulando in modo così sapiente attesa e sorpresa da rendere tutti complici del suo voyerismo.
Si prosegue poi con “Il curioso caso di Benjamin Button” (2008): David Fincher dirige per la terza volta Brad Pitt, questa volta accanto a Cate Blanchett. Nonostante le degne interpretazioni, la pellicola è accolta con un po’ di freddezza, forse per la lunghezza e il carattere episodico, o forse per la vacuità effettiva del personaggio Benjamin, protagonista asettico e partecipante passivo del “secolo breve”.
Il David Fincher della mente umana
David Fincher cresce, diventa sempre più meticoloso, più esatto, più bello da guardare: se la sua carriera sembrava aver preso una traiettoria calante, “The Social Network” (2010) la salva. La storia di Mark Zuckerberg e del suo impero si sciolgono in un montaggio incalzante e in ambienti affascinanti, eppure non si riduce tutto solo alla conquista di cifre sempre più alte e alla programmazione informatica, seduttrice arcana di chi non ne sa un’acca: è un altro studio attento e delicato della persona umana. Mark diventa egli stesso un algoritmo come quelli da cui è circondato, e per di più rimane senza soluzione: stronzo o ingenuo?
Già nel 2011 esce un altro film, e David Fincher si supera: “Millennium – Uomini che odiano le donne”. Perché riproporre un film che già si era già girato in madrepatria, dove la storia originariamente era nata (dalla penna di Stieg Larsson)? Perché gli si può dare un carattere diverso. Quello che il regista spiega è che, secondo lui, l’intera storia di Lisbeth Salander e Mikael Blomkvist non è altro che un pretesto per indagare i rapporti tra maschi e femmine. Quasi ridotto al bianco e nero, il film risulta essere elegante e interessante, rassicurante perché non criptico. E tuttavia rimane e anzi viene accentuato quel gusto dell’irrisolto: Lisbeth, intelligentissima quanto lo è Mark, rimane un esserino selvaggio e incomprensibile, addomesticato solo dalle abitudini caute di Mikael che, dal canto suo, osserva senza sapere o voler decifrarla.
Dopo un breve passaggio alla televisione per dirigere i primi due episodi di “House of Cards” – e quante ce ne sarebbero da dire sulla mente umana e sulla manipolazione – David Fincher alza la posta ancora una volta, e dirige un labirinto di intenzioni taciute e macchinazioni tutte tessute come una fitta ragnatela tra un marito e una moglie: “Gone Girl – L’amore bugiardo” (2014), splendido quanto disorientante. Questa volta, finalmente, la facilità di lettura che caratterizzava Fincher lascia il posto alla perplessità, fino alla fine, e la complessità intangibile dell’intelligenza contaminata da passioni forti si rispecchia in una trama che ondeggia in molte direzioni per poi, a sorpresa, tradirle tutte.
Chiara Orefice