Quando l’imperatore Claudio si spense improvvisamente nel 54 d.c., Roma lo pianse con lacrime amare. Il senato gli fece avere onoranze funebri in pompa magna; sua moglie, Agrippina, gli fece costruire un tempio sul Celio, e fu così che il quarto imperatore della dinastia giulio-claudia si ritrovò divinizzato senza nemmeno sapere il percome. Eppure la realtà fu molto diversa da questa apparente sacralizzazione, al punto tale da risultare una vera e propria beffa ai danni di un personaggio inviso al senato, che lo stesso Seneca non si fece specie di ridicolizzare nella sua Apokolokyntosis.
L’Apokolokyntosis: ovvero la trasformazione in zucca del Divi Claudii
“Intendo tramandare a memoria futura che cosa è successo in cielo il 13 ottobre di un nuovo anno. […] Se qualcuno volesse chiedermi come ne sono a conoscenza, anzitutto, se non voglio, non risponderò. Chi potrebbe costringermi? […] Chi ha mai preteso garanti da uno storico?” [1]
Lucio Anneo Seneca è giustamente annoverato tra i classici della letteratura latina. La sua filosofia poggiava le basi sullo stoicismo greco che ha influenzato la sua intera produzione letteraria, contribuendo largamente a conferirgli la fama di uomo esemplare concretamente attivo nella ricerca del bene comune.
Esempio di imago vitae secondo Tacito, ovvero di colui che propone il proprio io come modello comportamentale a cui la società deve guardare per trarre insegnamento; anello di congiuntura, grazie alle sue tragedie, tra il teatro classico (greco soprattutto) e teatro moderno (influenzò non solo Shakespeare, ma anche Racine), con questo poemetto difficile da pronunciare si comportò da vero bullo nei confronti di Claudio che già era stato beffato dalla vita e dai suoi contemporanei.
Nell’Apokolokyntosis Seneca spiega cosa succede sull’Olimpo alla morte di Claudio. Questi, ritrovandosi al cospetto degli Dei, vuole giustamente essere uno di loro, essendosi commosso di fronte al proprio funerale, ignaro che tutta quella fastosità fosse pura ipocrisia. Poiché il cielo lo rigetta non ritenendolo degno, finisce negli inferi nelle mani del liberto Menandro: <<perché lo usasse come segretario per le inchieste giudiziarie>> [2].
La satira è contenuta già nel titolo, laddove per Apokolokyntosis Seneca si riferisce alla parola greca apotheosis che rimanda proprio al concetto di divinizzazione. Al suffisso –theo (dio) sostituisce –kolokynthe (zucca). Anche se all’interno del testo non c’è alcun riferimento alla metamorfosi in vegetale, l’intento poetico è raggiunto ugualmente; Seneca voleva simbolicamente rappresentare la stupidità dell’imperatore Claudio, il suo essere uno zuccone.
Questo scritto satirico e dissacrante è l’unica opera del genere composta da Seneca, e perché un personaggio del suo calibro si scomodò a comporla è presto detto. Sicuramente erano in gioco fattori personali, considerando il fatto che l’imperatore Claudio aveva voluto fortemente il suo esilio. Ma questi da soli non bastano a spiegarci la genesi del poemetto, o altrimenti metterebbero in discussione l’intera poetica senecana.
C’erano, tuttavia, anche ragioni di carattere politico, più profonde che riguardavano non solo il nostro Seneca, ma l’intera classe senatoria. Per quanto Claudio sia stato bistrattato e descritto come un incapace, un imbelle completamente succube delle mogli e odiosamente legato ai liberti, bisogna pure dire, ad onor del vero, che il suo governo era buono e innovativo. Ciò che il senato non gli perdonò mai, anche se egli si prodigò di collaborarvi attivamente, fu la partecipazione dei liberti alle cariche pubbliche. Non a caso Seneca nell’Apokolokyntosis lo affida, per dileggio, proprio ad un liberto. E un liberto, Narcisse, era il suo amico più fidato.
La congiura
La verità storica, però, era un’altra: l’augusta Agrippina non era sicuramente una vedova inconsolabile, bensì l’artefice della congiura. Ormai da tempo meditava di spodestare il marito e di mettere sul trono suo figlio Nerone, il quale era ancora piccolo e perciò più propenso, secondo la madre, ad ascoltare i suoi suggerimenti.
Ciò che Agrippina intendeva era semplicemente plasmarlo secondo il suo volere e di fatto governare al suo posto. E bisogna pure dire che nel periodo della reggenza (quinquennio aureo) in parte vi riuscì, e l’impero fu effettivamente portato avanti da Agrippina stessa e dal precettore del figlio, ovvero il nostro Seneca.
Per attuare un piano degno di concorrere con Game of thrones, Britannico, che poi era il figlio naturale di Claudio e Messalina (Nerone era figlio di Agrippina, Claudio lo aveva adottato) ed erede designato, doveva essere tolto di mezzo. Invece che ucciderlo, si pensò bene di cambiare il testamento a vantaggio di Nerone. Il gap era che Narcisse, appunto il fedele liberto di Claudio e suo segretario personale, non si sarebbe mai schierato dalla parte dei congiurati, e perciò si dovette aspettare che questi si trovasse fuori Roma per procedere.
L’occasione giunse finalmente quando Narcisse si ritirò a Sinuessa per curare la gotta, lasciando Claudio in mani non proprio amorevoli.
La morte doveva passare inosservata, e perciò ventitré coltellate nel bel mezzo di una assemblea del senato non andavano bene. Il veleno però può risolvere parecchi guai, e chi avrebbe sollevato domande, avendo la protezione giusta, semmai l’imperatore avesse avuto un malore dopo pranzo?
Questo lato satirico di Seneca mette in scena l’irriverenza di un’intera classe sociale, quella senatoria dicevamo, che rimpiange i tempi della repubblica, dove, guarda caso, il senato regit, ma sa anche che non si può tornare indietro; ormai ha fatto il suo corso, eppure non si dà per vinta. E per non perdere il vecchio potere cui era stata abituata, anni dopo spianerà la strada alla cosiddetta stagione degli imperatori d’adozione.
Roberta Fabozzi
Bibliografia
[1] Seneca, Apokolokyntosis, cap. 1, parr. 1-2, Mondadori
[2] Seneca, Apokolokyntosis, cap. 15, par. 2, Mondadori