Un comunissimo nome britannico come Tom Hardy è legato ad un uomo profondamente caratterizzato dal fisico, dalla voce, dall’espressività e dall’esplosione di entusiasmo che dilaga fra produttori e registi, che lo tirano per le braccia inserendolo di forza nelle proprie pellicole. Fatto sta che al momento Tom Hardy, godendo di un’indubbia epoca d’oro, ha lasciato dietro di sé il 2015 con il magnifico “Mad Max: Fury Road” (George Miller), e aprirà il 2016, per lo meno in Italia, con l’attesissimo “Revenant – Redivivo” (Alejandro González Iñárritu) e con “Legend” (Brian Helgeland).
Gli occhi di Tom Hardy
Dovendo farlo identificare ad un amico che non lo conosce per nome, cosa gli si potrebbe dire?
“Tom Hardy è quell’attore che sa recitare con gli occhi, hai presente?”
Be’, a quel punto dovrebbe capire. Ormai è proverbiale che l’espressività di Tom Hardy sia così peculiare da consentirgli di fare a meno della parte inferiore del viso. Lo si era già visto con “Il Cavaliere Oscuro – Il ritorno” (Christopher Nolan – 2012), e non parliamo di una minuzia preziosa che pochi bravi osservatori hanno notato: era talmente d’effetto che quegli occhi chiari sul volto di Bane esprimessero un’intensità di passione troppo articolata per poter essere spiegata a parole senza sciuparne l’immediatezza, che più o meno metà dei recensori della pellicola si sentirono in dovere di farlo presente.
Ancora prevalentemente con gli occhi deve recitare in uno dei suoi ultimi ruoli, quello di Max in, appunto, “Mad Max: Fury Road”. Tom Hardy si carica di un non troppo semplice compito: riportare in vita quello che fu il personaggio di Mel Gibson nella gloriosa trilogia di Miller degli anni Ottanta, riuscendovi poi in maniera encomiabile e contribuendo a far rimanere la saga ai livelli originali. Come a quei livelli è l’allucinata lontananza dalla florida società civile che porta con sé pazzia e furia, anche attraverso di lui.
Per rendere omaggio agli occhi di Tom Hardy basterebbe poi citare la seconda stagione di “Peaky Blinders” (Steven Knight – 2013 – in corso) e il Solomon che vi entra in scena, monumentale, non tanto per la presenza fisica quanto per l’immobilità terrificante di uno sguardo che, in alternativa, manifesta una pulita e giustificata spavalderia.
La sua faccia-da-teatro
Benché di gavetta in teatro non ne abbia fatta granché, Tom Hardy è davvero teatrale. “Bronson” (Nicolas Winding Refn – 2008) potrebbe fare al caso nostro per illustrarlo: la parte biografica si alterna alla narrazione su un palco fittizio, spoglio e inutilizzato se non per il metro quadrato che al protagonista serve per monologare, inveire e far venire i brividi, come un mimo che trattiene a stento una rabbia bruciante sotto gesti plateali.
Oppure guardiamo “RocknRolla” (Guy Ritchie – 2008), dove Tom Hardy alterna effemminatezze ad azioni brutali, costruendo uno strano personaggio fatto di scatti e una quanto mai strana grazia nei movimenti di un corpo fatto per lo più di muscoli. E ancora, diamo un’occhiata a “Inception” (Christopher Nolan – 2010) che è un altro perfetto omaggio alla sua espressività da teatro. Il suo personaggio, Eames, è colui che nel sogno si impossessa dell’identità di qualcun altro assumendone i modi di fare e la gestualità, plasmando se stesso sull’espressione esteriore di una personalità. Insomma, interpreta un attore.
E la sua voce
Roca, bassa, poco profonda, un po’ biascicante: è senza dubbio caratteristica. Da un lato in “Warrior” (Gavin O’Connor – 2011) è usata poco e a spezzoni, rotta dalla poca voglia di tirarla fuori perché diventa immediatamente segnale di un’intimità che va oltre guantoni e raffiche di colpi; dall’altro “La talpa” (Tomas Alfredson – 2011) è l’esatto contrario: tra la vergogna e l’atarassia dovuta alla rassegnazione, è voce che evoca con il racconto, ed è lo strumento principe per una spia che fa del proprio potere affabulatorio l’arma e la difesa.
Ma è “Locke” (Steven Knight – 2013) ad essere la massima espressione del talento di Tom Hardy. Chiuso in un’automobile per tutta la durata della pellicola, è raffreddato, stanco e preoccupato. Ed è pur sempre un uomo qualunque a cui è capitato qualcosa di imprevisto che probabilmente sconvolgerà la sua vita, ma che in fondo non è nemmeno evento straordinario. La protagonista è proprio la voce dell’uomo che guida e contemporaneamente dirige, consola, tranquillizza, in modo così seducente e così nudo da far innamorare dell’onestà di intenti e di realizzazione che questa pellicola porta con sé.
Chiara Orefice