Steve McQueen è all’anagrafe Steven Rodney McQueen, londinese (che il mondo stia scoprendo, oltre agli attori, anche i registi inglesi?) e prossimo ai cinquanta. Ha diretto molti corti e solo tre lungometraggi.
Ma, signori, quei tre lungometraggi stillando dedizione.
Hunger
Hunger esce nel 2008 aggiudicandosi un buon successo di critica ma raggiungendo le sale italiane soltanto nel 2012, dopo il successo della seconda pellicola di McQueen. Il regista parte col botto: pellicola lunga, lenta e politica, tutto quel che ci vuole per rischiare. Bene, il rischio ha portato come risultato un’opera straordinaria, che nemmeno lo stesso McQueen ha ancora superato con i successivi due film.
Ambientato interamente in carcere, “Hunger” tratta della protesta dei carcerati del Long Kesh, in Iralanda del Nord, volta ad ottenere lo stato di prigionieri politici. Bobby Sands è Michael Fassbender, membro attivo dell’IRA e tra i più convinti sostenitori della protesta: questo vuol dire partecipare, insieme agli altri, allo sciopero della fame, in aggiunta alle precedenti privazioni autoimposte, le cosiddette “blanket protest” e “dirty protest”, evidentemente insufficienti.
Come si muore di fame? Lentamente, con un deperimento del corpo che è una lotta contro il cervello pieno di ideologia, di ostinazione e della convinzione che la morte di un corpo possa portare beneficio alla dignità di tutti. Più che sul significato politico in sé, Steve McQueen indaga questo combattimento tra l’inafferrabilità di un’idea e la concretezza spigolosa di ossa sottopelle sempre più sporgenti.
Come prolungata è quella morte per fame, così è anche l’intero film. Si tratta della composizione di un osservatore: se qualcosa colpisce il suo occhio, rimarrà incantato a guardare, dilatando immagini e suoni in uno spazio e un tempo che a loro volta agonizzano nell’attesa di potere andare ad estinguersi nella loro morte riposante.
Shame
Non ha importanza dove quel combattimento tra mente e corpo si svolga o quanto tempo impieghi nel compiersi, perché l’interiorità dell’essere umano non ha parametri misurabili. Entrambi i duellanti dettano la loro legge, assoggettandosi a turno, talvolta vincendo, talvolta distruggendosi a vicenda come era accaduto a Sands in “Hunger”.
In Shame (2011), Brandon (ancora Michael Fassbender) ha assuefatto la mente con le voglie del corpo, costringendo quella parte astratta di sé che si potrebbe chiamare anima a sottostare a un istinto, il cui significato si è dissolto interamente nell’ossessione. Ed è questa la vergogna: essere schiavi.
Steve McQueen tratta con affetto il suo lussurioso, ne fa una personalità accattivante, affascinante, e nella sua malattia lo coccola rivelandone il degrado e la bruttezza, come se un cancro fosse la peculiarità che fa la differenza… Anzi, come se la differenza fra il suo personaggio e tutti gli altri stesse nell’essere campo di battaglia per la lotta che quel cancro ingaggia con la presenza salvifica della sorella di lui, Sissy (Carey Mulligan).
E il regista non è un cronista esaltato che urla i punti assegnati all’una o all’altra parte sputacchiando saliva nel microfono. Al contrario, è un osservatore pacato il cui occhio, dietro la macchina da presa, è dotato di una gentilezza rara, assolutamente caratteristica dello stile di McQueen. Questa calma profonda nel riportare gli eventi stranamente non si sposa con l’indifferenza: la pellicola vibra di incoraggiamento a lottare contro quell’assuefazione al piacere corporale fanatico, come precedentemente esortava i prigionieri in protesta a rimanere a testa alta. Non tanto perché alla fine si arrivi a una vittoria, ma perché, soprattutto, per il momento si combatta e si resista.
12 anni schiavo
Ed ecco arrivare, nel 2013, la pellicola che agli europei non è piaciuta, mentre agli americani è piaciuta un po’ troppo. Come si dice ormai da tempo: oltreoceano c’è una quasi malsana passione nel premiare la propria storia passata.
Chiwetel (Solomon Northup) non è dilaniato da nessuna lotta interiore fra mente e corpo, se non forse una certa resistenza della prima ad arrendersi al fisico affaticato, o magari, viceversa, la volontà del corpo di non soccombere alla rassegnazione della mente. Fatto sta che il Chiwetel di Steve McQueen è un uomo che si barcamena come può attraverso le vessazioni che tanti, del tutto simili a lui, pativano in quegli anni, forse sostenendosi con la memoria della sua famiglia o forse sopravvivendo in funzione del sogno di ritrovarla.
Nei precedenti lavori le pellicole stavano a rappresentare una situazione, se non statica, quasi, molto lenta e ripiegata su se stessa, sui suoi movimenti impercettibili che portano ad un cambiamento evidente solo dopo molto tempo. Ecco, se prima tutto questo doveva per necessità sfociare in un carattere episodico del film e tuttavia non spezzare l’organicità del tutto, in 12 anni schiavo questo stesso carattere potrebbe invece risultare un elemento dannoso per la linea temporale, resa infatti ineguale e disordinata.
Forse un po’ troppo patetico per i gusti nostrani, rimane comunque uno dei film più apprezzati degli scorsi anni, magari preludio di successi ben maggiori, sempre a omaggio di grandi ideali che hanno fatto la storia. Steve McQueen pare infatti intenzionato a dirigere un film incentrato sulla vita di Paul Robeson, oltre che la miniseria “Codes of Conduct” diretta per l’HBO e in uscita quest’anno.
Chiara Orefice