La parola greca diàbolos, da cui diavolo, sta per “colui che divide”, il calunniatore; dàimon invece, da cui demone e demonio, non aveva in origine connotazione esclusivamente negativa, l’assunse solo con l’avvento del Cristianesimo nell’accezione di spirito maligno, ad indicare Lucifero.
Il demonio non può nulla contro la volontà, pochissimo sull’intelligenza e tutto sulla fantasia. [1]
Giocare con l’etimologia delle parole serve a fare leva su impressioni immediate, alogiche, che spontaneamente si creano nella mente umana, cosa che, come vedremo, si può fare con molti altri epiteti del demonio. Questo gioco di associazioni, peraltro, si fa da centinaia di anni quando si parla del male: come diceva Huysmans la fantasia, dominio dell’irrazionale, è il campo prediletto del demonio, o della suggestione che tale parola genera nell’uomo, con l’annesso caleidoscopio di immagini e ribollente calderone di paure e sensi di colpa. Per questo motivo il diavolo ha veramente mille volti, tanti quante suggestioni è in grado di suscitare nell’uomo; egli sarà di volta in volta mostro orrendo o affascinante angelo caduto, tentatore, ingannatore, colui che ha tradito oppure che si è ribellato a un potere dispotico.
La letteratura ha variamente interpretato tali suggestioni e fornito le più svariate raffigurazioni del diavolo attraverso i secoli; iniziamo, dunque, dal sommo della letteratura italiana, Dante, che, come ha detto ironicamente Cioran, ha fornito “la maggiore riabilitazione del Diavolo che un cristiano abbia intrapreso”.
Indice dell'articolo
Lucifero nella Commedia
Vexilla regis prodeunt inferni. [2]
“Le insegne del re dell’inferno avanzano.”
Così inizia il trentaquattresimo canto, l’ultimo, dell’Inferno dantesco, con l’unica citazione latina della prima cantica. Data la complessa stratificazione plurilinguistica della Commedia, possiamo azzardare che l’uso del latino servisse a conferire solennità al personaggio, ipotesi suffragata dal fatto che la citazione riprendesse un inno religioso.
Ci ritroviamo così, da subito, in un clima di orrore religioso, di solennità biblica: nella Giudecca ogni cosa è statica, tutto tace, l’unico movimento è dato dal vento gelido generato dalle ali di Lucifero.
Lucifero: portatore di luce
È Virgilio a raccontare a Dante la storia della creatura ch’ebbe il bel sembiante.
Il grandioso mito cosmico, di origine aristotelico-averroistica, vuole che in origine le terre emerse si trovassero nell’emisfero australe, più nobile perché più vicino all’Empireo. Lucifero, il più fulgido tra gli angeli, il più glorioso e vicino a Dio, aspirava orgogliosamente ad essere al pari di Dio e per tale peccato di superbia, primo di tutti i tradimenti, fu scagliato a testa in giù verso la terra; essa, spaventata, inorridita, si ritrasse da lui, rifugiandosi sotto le acque, scambiandosi di posto con esse e andando a occupare l’emisfero boreale.
Lucifero si trova così confitto nel punto al qual si traggon d’ogne parte i pesi, il centro della terra, che, secondo la dottrina aristotelico-tolemaica, era anche centro dell’universo e della gravitazione universale. È anche il punto più lontano da Dio, che costituisce la punta del cono infernale immaginato da Dante.
La caduta di Lucifero, inoltre, presenta somiglianze con quella di Fetonte, più volte citato da Dante: entrambi esseri luminosi, entrambi caratterizzati dall’ambizione di puntare troppo in altro, entrambi, infine, scagliati sulla terra da un dio adirato dal loro peccato.
Le rappresentazioni medievali di Lucifero: grottesco o grandioso?
Lo ‘mperador del doloroso regno
da mezzo ‘l petto uscia fuor de la ghiaccia;
e più con un gigante io mi congegno,
che i giganti non fan con le sue braccia (…) [3]
Il Lucifero dantesco, imperador del doloroso regno (espressione chiaramente opposta all’imperador che là sù regna, con cui si riferisce a Dio nel primo canto del poema), è gigantesco: le sue dimensioni gli conferiscono sì una natura esclusivamente materiale, carente di qualsiasi spiritualità (e infatti a Dante appare, in lontananza, come una macchina, simile a un mulino a vento), ma anche una sua grandiosità, una sorta di sacralità negativa.
Egli, a differenza di tutti gli altri traditori dei benefattori, non è eternamente bloccato in una posa innaturale, ma al contrario è in posizione eretta, nobile; non è un uomo dannato, ma un angelo sconfitto e reso impotente: se ne può avere orrore, non prendersene gioco. Dalla rappresentazione è esclusa qualsiasi componente grottesca. In questo Dante si distingue da molta iconografia medievale, che amava raffigurare i diavoli, Satana compreso, in modo ridicolo: ne è un esempio la raffigurazione di Giotto nella Cappella degli Scrovegni a Padova. Lucifero si distingue da tutti i diavoli minori presenti nell’Inferno: quelli hanno code e attributi animaleschi, sono creature irriverenti e volgari, mentre il re infernale è mostruoso, ma nessuna trivialità inficia il suo aspetto.
Una delle fonti figurative di Dante è il Giudizio Universale del Battistero di San Giovanni a Firenze, col quale Lucifero condivide le tre teste e i sei occhi. La raffigurazione dantesca però, come già detto, lungi dall’essere ridicola, vuole in realtà essere una sorta di trinità negativa che sia speculare a quella, perfetta, di Dio. Allo stesso modo, in un gioco di corrispondenze, le sei ali da pipistrello di Lucifero generano un vento gelido che è opposto al soffio d’amore infuocato dello Spirito Santo.
Dopo questo incontro, Dante e Virgilio si aggrappano (letteralmente) al corpo di Lucifero, impassibile, per arrivare nell’altro emisfero e uscire a riveder le stelle; il nostro cammino letterario alla scoperta delle mille facce del diavolo, invece, è appena iniziato.
Maria Fiorella Suozzo
Fonti
La Divina Commedia, Inferno, a cura di Umberto Bosco e Giovanni Reggio
Per un excursus: La rappresentazione del demoniaco
Lucifero nella Commedia: I, II
immagini: google images
Citazioni
[1] L’oblato, Joris-Karl Huysmans
[2], [3] XXXIV canto, Inferno