La prima volta con i colori
Il 1964 è l’anno in cui Michelangelo Antonioni realizza per la prima volta un lungometraggio a colori, ovvero Il deserto rosso o Deserto rosso. Da Il deserto rosso in poi, Antonioni farà del colore uno strumento importante del suo cinema (basti pensare al dorato liberatorio di Zabriskie Point). In Deserto rosso appare fondamentale a certe esigenze del regista, alla sua volontà di far sì che il colore entri in armonia con ciò che è rappresentato, rispondendo alla necessità di un’espressione cinematografica dei nuovi tempi che sarebbe potuta essere resa in un tal modo solo attraverso l’uso dell’alternanza di alcuni colori.
A proposito dei colori, Antonioni affermava: “Ho cercato di sfruttare ogni minima risorsa narrativa del colore in modo che entrasse in armonia con lo spirito di ogni scena, di ogni sequenza. La concordanza tra certi nuovi modi di utilizzare il colore nel cinema moderno – penso per esempio a Resnais, a Bergman – non è casuale. È un’esigenza che abbiamo sentito contemporaneamente perché è legata all’espressione della realtà del nostro tempo […]. Non ho mai pensato: ‘Adesso metto un blu accanto a un marrone’. Ho voluto che l’erba attorno al casotto sul canale fosse colorata per accentuare quel senso di desolazione, di morte. Bisognava rendere una certa verità del paesaggio”.
Per questa resa innovativa del colore, Antonioni poté contare sull’aiuto dell’esperto direttore della fotografia Carlo Di Palma e sulla collaborazione di Tonino Guerra nella stesura della sceneggiatura di Il deserto rosso. In un cast di attori dai nomi non così altisonanti, spicca Monica Vitti, la musa di Antonioni, oltre al cantante e attore irlandese Richard Harris.
Il deserto rosso, la trama
In una Ravenna invernale, Giuliana (Monica Vitti), moglie dell’industriale Ugo, ha tentato il suicidio in seguito ad un incidente stradale ed ora soffre di una forma di nevrosi che la allontana sempre più dal marito e dal figlio Valerio. Intanto Giuliana conosce Corrado (Richard Harris), un ingegnere amico del marito che sta cercando operai specializzati per una fabbrica in Patagonia. Così cerca vanamente un equilibrio, si fa un amante (Corrado) e vaga senza trovare soluzione alla sua crisi, niente più sembra infatti bastare a guarirla.
Il disagio di una donna in un mondo desertico
Lo scenario che Il deserto rosso offre ai nostri occhi, è quello di un mondo desolato, dove il grigio domina incontrastato sugli altri colori, la natura sembra aver perso la lotta contro l’industrializzazione violenta, tra orizzonti offuscati dalla nebbia e fabbriche che dominano il paesaggio. In questo mondo innaturale e industrializzato, si muove estraniata Giuliana, che con la sua sensibilità avverte l’innaturalezza di quel mondo, una sorta di crisi la investe e dalla quale non riesce ad uscirne, forse perché è una crisi ormai parte del nuovo corso dell’esistenza, dalla quale ormai non ce ne si può più liberare, se non nelle fantasie delle favole. È proprio nella favola di Giuliana raccontata al figlio che si trova la sua idea di mondo vivo e naturale contrapposta al vero-falso mondo, che ormai è disumanizzato e morto nel grigiore. L’unica speranza per Giuliana sembra essere Corrado, che alla fine però, si rivela essere come tutti gli altri. La vita di Giuliana e forse anche quella degli altri, sembrano inesorabilmente destinate ad essere sotterrate da valanghe e valanghe di nulla e di solitudine.
Attraverso Il deserto rosso, a differenza di quanto possa sembrare, Antonioni non voleva essere critico nei confronti della nuova società, o perlomeno non voleva creare un film di opposizione a quel mondo, anzi, si può dire che questo film sia un’opera dall’alto valore estetico, una sorta di celebrazione del trionfo del paesaggio moderno industrializzato, dell’immagine della fabbriche con le sue linee rette e curve e dei colori nuovi che ha portato nel paesaggio. Insomma, una specie di viaggio nel nuovo mondo dell’ industrializzazione fino ad arrivare a questa specie di crisi che si percepisce nell’aria ma che più di tutti percepisce Giuliana. Alla fine Antonioni, nonostante il suo stile ermetico, fatto di scene che un novello osservatore potrebbe definire fuori luogo, riesce a rappresentare eccellentemente il disagio di questa donna in un mondo trasformato nelle forme e nei colori; in questo aiutato da un’interpretazione quasi perfetta di Monica Vitti e dal lavoro innovativo di Carlo Di Palma.
Roberto Carli