Sudafricano e nato al cinema come tecnico degli effetti speciali, Neill Blomkamp passò alla regia per conto di grandi società quali Gatorade e Nike, dirigendo qualche spot pubblicitario nei primi anni 2000. Proseguì poi con alcuni corti, tra i quali spicca “Crossing the Line” (2007), a cui collabora Peter Jackson.
Una gavetta classica, sudata, apprezzabile. Ma noi siamo qui per parlare dell’elezione di Neill Blomkamp a principe, stella nascente, promessa di quel filone che si sta cominciando a chiamare “fantascienza etica”, o magari, nel suo caso, “politica”.
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Il primo film di Neill Blomkamp…
…Esce nel 2009 con la benedizione di Peter Jackson, che lo produce, e meno male: questo ha senza dubbio contribuito a dirigere qualche sguardo in più verso l’opera prima dell’allora trentenne regista. Paradossalmente, Neill Blomkamp soffia un’arietta nuova nel campo fantascientifico, e quell’arietta sa di antico: spieghiamoci.
Cosa, secondo manuale e secondo tradizioni ordinatamente archiviate in secoli di storia letteraria, mette in campo la fantascienza? L’alienazione. Certi nobili intenti, andati stemperandosi con l’avvento di spade laser e Xenomorfi, ammaestravano con l’indice teso il giovane autore di fantascienza, insegnandogli a porre tra le mani del lettore una situazione per lui familiare, ma sotto un punto di vista scomodo, lontano, alieno, in modo da suscitare una riflessione sulla situazione stessa, di intensità variabile a seconda della portata intellettiva del destinatario.
Con somma sorpresa di tutti, Neill Blomkamp segue i manuali, facendo scoprire a tutti che effettivamente la riflessione nasce, e per giunta si presenta interessante! In un’intervista pubblicata da Wired dice:
“Ho bisogno di rotture per ragionare sul presente. Che sia la fantascienza o un elemento magico, devo riuscire a portare la situazione su piani in cui sia libero di inventare.”
…Si intitola “District 9”
“District 9” è una piccola opera d’arte che ripercorre l’Apartheid a tinte crude e polverose, sostituendo ai neri gli alieni, chiamati in senso spregiativo “Gamberoni”. Ironico che non ci siano umani tolleranti verso la nuova specie, e che la xenofobia sia raffigurata non tanto come tentazione esterna da cui ci si lascia insidiare, quanto piuttosto come caratteristica permanente del genere umano, mantenuta in vita da una coazione a ripetere: insomma, ci sarà sempre una minoranza discriminata.
Atroci le dinamiche politiche e mediatiche, ipnotiche: tutte verosimili e sarcasticamente snocciolate nei loro aspetti ufficiali e in quelli più marci del dietro-le-quinte. Prima agente e poi vittima di queste dinamiche è Wikus Van De Merwe (Sharlto Copley). Contro di lui infatti Neill Blomkamp rivolge la vendetta tipica, quasi bambinesca nella sua basilarità: far sentire lui come si sentono le vittime.
Si suppone che l’antipatia all’inizio suscitata da un personaggio simile impedisca di provarne pietà quando la punizione arriva. Ma per fortuna il regista è abile, per fortuna è un signor film, e forse per fortuna lo spettatore è migliore, sotto qualche punto di vista, di Wirkus: ci si scopre partecipi, e magari anche un pizzico addolorati.
Poi venne “Elysium”
Senza lasciarsi prendere dall’entusiasmo, Neill Blomkamp si concede quattro anni per piazzare in sala il suo secondo film, uscito nel 2013 e rivelatosi all’altezza del primo, se non addirittura migliore.
“Elysium” è una favola a lieto fine di ancora più evidente stampo politico. Se qualcuno un po’ più ingenuo non dovesse o non volesse accorgersi che sullo schermo c’è la questione della frontiera messicana disposta su una scacchiera diversa, compresa tra terra e cielo con annessa tecnologia futuristica, Blomkamp gioca con colori della pelle, nomi e lingue: i poveri sono ispanici, i ricchi sono candidi. La cattiva per eccellenza, per inciso, è Jodie Foster, glaciale incarnazione della peggiore politica capitalista.
Matt Damon, invece, è Max, supereroe dei bassifondi costretto a diventare consapevole che il proprio destino è il destino di tanti altri, che mettere al sicuro se stesso non ha valore, se anche chi rimane indietro non viene salvato.
Veloce, coinvolgente, da star protesi sulla poltrona per fare il tifo a Max, magari rifiutandosi di riconoscersi nei biondi e lucenti ricchi-cattivi. Marxismo imperante? Propaganda? Oh, sì. E anche piuttosto intelligente ed efficace.
E terzo “Humandroid”
Sì, tutti aspettano l’uscita del quinto capitolo di “Alien”, che sarà diretto appunto dal nostro Neill Blomkamp, fan storico della saga al punto da voler riportare il tutto agli aurei albori. Ma senza notizie fresche su quel fronte, bisogna accontentarsi di guardare (un’altra volta, magari) il suo ultimo lavoro.
Uscito quest’anno, sembra il capitolo finale di una trilogia che ha messo in chiaro l’idea politica del regista e che per un po’ lo ha fatto sognare beato con i suoi lieto-fine utopistici.
“Humandroid”, forse per il suo ruolo di temporanea chiusura dell’argomento, mette troppa carne al fuoco. Non che abbia perso lo stile del regista, non che sia realizzato male, anzi. È talmente pregno di significati pluristratificati, di questioni annose, perfino di domande esistenziali, che ai titoli di coda si è senza fiato, e inquietati dalla sensazione che l’usuale chiarezza esaustiva di Neill Blomkamp sia venuta a mancare.
Rimane l’indubbia e sempre più matura capacità dimostrata nell’orchestrare un match tra: la contorta mentalità dell’uomo contemporaneo, dominata dalla ricerca del benessere a discapito degli altri, mascherata da fedeltà a sacri valori, e qui rappresentata dal personaggio di Hugh Jackman; e l’innocenza di chi, come Chappie, arriva al mondo senza regole inscritte nel proprio codice genetico da una pessima evoluzione delle consuetudini sociali, pulito e puro, tutto nuovo, un po’ alla Rousseau.
Chiara Orefice