Il passaggio dalla tradizione alla modernità è un sentiero che presenta due svolte: in un primo caso, il salto avviene con quiete, nel perfetto amalgama delle tendenze; in un secondo caso, il salto diventa rovina, si spacca l’ordine della cultura e lo si fa con violenza da creatore. Samuel Beckett vive una nuova stagione, quella del teatro dell’assurdo, con la sua opera Aspettando Godot.
Samuel Beckett: dalla vita di Parigi al capolavoro
Vladimir: Ma non verrà mai la notte?
Samuel Beckett nacque nel 1906 in un sobborgo di Dublino. Frequentò il Trinity College, conseguendo una laurea in francese e italiano; questa duplice esperienza dimostra che il genio innovatore non fu istinto, ma assiduo studio. Saranno però gli anni di Parigi a segnare l’esperienza dell’autore. Nella capitale francese, Beckett strinse conoscenza con il drammaturgo Eugene Ionesco, pioniere del cosiddetto “teatro dell’assurdo”.
Aspettando Godot è la prima opera di Samuel Beckett a sperimentare il nuovo genere inaugurato da Ionesco. L’opera è composta da due atti: nel primo, due vagabondi, Vladimir ed Estragon, ciondolano nella logorante attesa del misterioso Godot. Nel gioco delle aspettative, i protagonisti si interrogano sulla vita, la separazione, il tempo. Ognuna di queste problematiche non trova risposta.
L’esperienza fittizia, surreale, eterea nel suo essere prosaica, verrà spaccata dalla presenza di Pozzo e Lucky, coloro che si mostrano quali servo e padrone, una distorsione metropolitana del grande esempio hegeliano. Il secondo atto, si conclude con Vladimir ed Estragon che aspettano, quasi in prigione, Godot che non arriverà.
Aspettando Godot: moderna illusione, Vladimir ed Estragon
Estragon: Mi ricordo le carte geografiche della Terra Santa. A colori. Erano
bellissime. Il Mar Morto era celeste. Mi metteva sete solo a guardarlo. E’
là dove andremo, dicevo, è là dove andremo per la nostra luna di miele.
Nuoteremo. Saremo felici.
Vladimir: Avresti dovuto essere un poeta.
Estragon: Lo sono stato. (Indica i proprio cenci.) Non è ovvio?
Non è difficile comprende che, tra i cardini dell’analisi di Beckett, si trova il concetto della “endless hope”, la speranza senza fine. La continua illusione che s’espande oltre il sipario viene risolta in uno stato di completa solitudine, solitudine marcata da una giusta prossemica, dalla spoglia scenografia. Al pari di T.S Eliot e della sua Waste Land, Beckett muta in assurdo un elemento fondamentale del XX secolo. Siamo dinanzi al silenzio, un tacere devastante che esplica la mancanza di intenti di comunicazione.
I dialoghi dei vagabondi sono intervallati da continue pause, frasi sospese. Non interessa completare la conoscenza, non se ne sente il bisogno. Necessario, invece, è aspettare Godot, una sintesi, per l’appunto inesprimibile, di una nuova volontà, una sorta di pulsione naturale che vive ben al di là del degrado.
Estragon (gesti impauriti, parole incoerenti. Finalmente): Perché non mi lasci mai dormire?
Vladimir: Mi sentivo solo.
Estragon: Sognavo di essere felice.
Vladimir: Intanto il tempo è passato.
Nonostante, ad un primo sguardo, Vladimir ed Estragon – abbreviati spesso come Didi e Gogo – sembrino figure lontane dai nostri canoni di razionalità, essi svolgono la loro esperienza come characters ben studiati. Vladimir è un uomo pratico, sicuro che Godot arriverà; Estragon è un sognatore moderno, spesso scettico circa il misterioso ospite. Entrambi chiudono il cerchio, la perfetta unità. Sono complementari e il loro scopo è fondamentale: ricordare, Vladimir a Estragon e viceversa, ricordare che esistono, sono presenti e vivono di speranza.
Da Oscar Wilde a Samuel Beckett
È giusto fare un breve inciso sulle differenze che caratterizzano il teatro del XIX secolo e l’esperienza drammatica della nuova era. Alziamo ad esempio del periodo vittoriano, le vicende narrate da Oscar Wilde.
Nel teatro di Wilde troviamo una lingua preziosa, sensuale, curata nel dettaglio. Ogni personaggio vive lo stereotipo degli obbiettivi, quella scalata sociale cardine della realtà passata. Va detto, però, che il vero proposito di Wilde, e degli altri intellettuali del periodo, era quello di intrattenere, giocando di satira, un tiro mancino al pubblico che era ad un tempo spettatore e protagonista.
La nuova arte di Beckett presenta, al contrario, un’apparente mancanza di intreccio. Nulla succede e, in questo baratro, spiccano figure malandate, relitti umani, emarginati, vagabondi. Beckett mostra la parola non condivisa e lo fa con una lingua nuda, pregna di simboli, spesso senza significato e ripetitiva.
Silvia Tortiglione
Fonti:
Samuel Beckett; Aspettando Godot, Einaudi. Trad. di Carlo Fruttero