Non è facile esordire nella crudele giungla dei lungometraggi da sala con “Orgoglio e Pregiudizio” (2005) ma, guarda un po’, con la straordinaria faccia tosta del novellino che sa di saperci fare, Joe Wright gira l’ennesima trasposizione del romanzo di Jane Austen, aggiudicandosi poi ben quattro nomination agli Oscar.
Pellicola delicata nei toni, sia di colore – cieli plumbei un po’ Turneriani accanto ai verdi e all’oro tipici di un’Inghilterra rurale – sia musicali – ad opera del nostro Dario Marianelli –, ha per protagonisti la discreta, ma in verità poco adatta, Keira Knightley nel ruolo della celebre e amatissima Elizabeth Bennet, e Matthew Macfadyen, non bello come si sa che è il signor Darcy, ma sicuramente di un certo talento.
Joe Wright già al suo esordio si mostra attentissimo al romanzo originale e profondamente rispettoso del lavoro di un autore, dedicandosi con sollecitudine alla resa degli spazi e degli animi. C’è qualche zoppicamento e un paio di cadute di stile qui e là che rendono sgraziati alcuni momenti di un prodotto tutto basato, appunto, sulla gradevolezza dei movimenti di macchina in stanze sobrie ed elegantissime, ma nel complesso si può dire che sia una trasposizione molto buona, poetica e a tratti emozionante.
Joe Wright legge molto
Tratto distintivo di Joe Wright è la predilezione per i grandi romanzi. Se gli era bastata la letteratura femminile britannica ottocentesca per iniziare, prosegue con “Espiazione” (2007), basato con la solita estrema fedeltà sul romanzo di Ian McEwan. Con il solo apparente scopo di omaggiare al meglio l’opera dell’autore, il regista traspone non solo la trama, ma anche la caratteristica focalizzazione quasi ossessiva di McEwan sui panorami interiori e sui suoi meccanismi, in modo sintetico ed efficace, garantendo comunque come risultato finale un film e non un verboso resoconto.
Torna la prediletta Keira Knightley, accanto a Saoirse Ronan, Romola Garai e soprattutto James McAvoy, impiegato come si deve e al meglio della sua forma nei panni dell’innocente accusato e incollerito, finito soldato sulle spiagge di Dunkerque. Vale la pena precisare che proprio il piano sequenza che raccoglie tutta la disperazione della storica disfatta è uno dei momenti decisivi dell’intera pellicola, un riassunto breve della regia di Joe Wright: pulita, silenziosa, attenta ai movimenti e a dove cade lo sguardo, ricchissima di pathos e curata come la tela di un pittore.
Raccolto il successo di questo secondo lavoro, Joe Wright si dedicherà poi a una storia vera e alla sua prima sceneggiatura originale. Solo nel 2012 tornerà ad occuparsi di grandi eroine ottocentesche con “Anna Karenina”.
Per trattare l’enorme materia del romanziere russo Lev Tolstoj, Joe Wright decide di trasformarlo in una metaforica rappresentazione teatrale, per ridurre gli spazi e focalizzarsi sui soli binari su cui si muovono i personaggi, già ingombranti di per sé.
Keira Knightley, qui splendida e davvero brava, è di nuovo la protagonista, tormentata, tanto complessa quanto insopportabile: Anna. Attorno a lei si muovono tre satelliti: il suo amante Aleksej Vronskij (Aaron-Taylor Johnson), il marito Aleksej Karenin (Jude Law) e il fratello Stiva Oblonskij (Matthew Macfadyen), insieme poi all’effettiva controparte maschile, Levin (Domhnall Gleeson).
L’attenzione a tutto ciò che può rendere un film prezioso – i costumi e le scenografia sonodi una bellezza mozzafiato, e la colonna sonora è come al solito tra i protagonisti principali – non impedisce però alla pellicola di essere lenta qui e là, farraginosa addirittura, affettata in maniera eccessiva, tradendo Joe Wright proprio lì dove ancora non era caduto: nella resa delle emozioni forti.
Comunque, a proposito di grandi romanzi, tra pochi mesi uscirà il suo nuovo film, “Pan – Viaggio sull’isola che non c’è”, liberamente basato su un altro classico, “Peter Pan” di James M. Barrie.
A parte i romanzi
“Il solista” (2009) è il terzo lungometraggio di Joe Wright, basato su un romanzo di Steve Lopez a sua volta incentrato su una storia vera. I protagonisti sono due nomi d’eccezione, Jamie Foxx e Robert Downey Jr., che costituiscono un duo per certi versi ben calibrato ma che all’epoca non bastò a rendere la pellicola un successo.
Abbastanza lontano dalla classica favola della malattia sconfitta dal talento e dal genio, non ha stuzzicato la mente dei sognatori e degli speranzosi, rimanendo così all’ombra di altre favole a lieto fine. Joe Wright, comunque, nonostante tutto, cura come sempre i suoi personaggi e trova in ogni occasione il modo di mostrarli dall’interno, per quanto i due protagonisti con cui ha a che fare stavolta ricalchino persone reali e, quindi, abbiano tratti meno accentuati rispetto a quelli fittizi e ben marcati di un romanzo.
Come se volesse dare una risposta a quanto appena scritto, nel 2011 Joe Wright dirige Saoirse Ronan in “Hanna”, tratteggiando con decisione, anche troppa, un personaggio delle fiabe, una neo-Cappuccetto Rosso che sa parlare una quantità indefinita di lingue, maneggiare un bel po’ di armi e viaggiare da sola per l’Europa rimanendo incolume non tanto ai tipici pericoli dell’autostop, quanto alla CIA.
Film d’azione monotono e prevedibile, “Hanna” non sarebbe per nulla apprezzabile se non ci fosse stato Joe Wright a rendere tutto una colorata fiaba tra le nevi, tra le sabbie del Medioriente e poi in luoghi più vicini come Berlino. Michael Bana e Cate Blanchett, pur bravi, non aggiungono né tolgono niente a quello che è un fallito tentativo di unire la tecnica con la sostanza, dove l’una si mostra collaudata e saggia, e l’altra crolla dopo la prima mezz’ora.
Nel complesso, con poco più di quarant’anni, Joe Wright ha definito un certo stile ricercato ma non manieristico, ha messo in chiaro alcune sue passioni e, insomma, ha fatto associare qualche bella immagine al suo nome. Non ancora tra i grandi della nostra epoca, certo, ma chi può dire…
Chiara Orefice