Andy Warhol, l’Artista. Soltanto evocando il suo nome possiamo percepire come la sua arte abbia completamente rivoluzionato la funzione della stessa, il significato, il rapporto con il pubblico.
La Pop Art, di cui è sicuramente il maggior rappresentante, è infatti l’arte a cui tutti possono accedere. Il pubblico vi partecipa, può addirittura osare l’acquisto di oggetti seriali dotati però al tempo stesso di una loro unicità. Il caso più eclatante fu forse quello delle Brillo Boxes, le scatole di detersivo di cui, in una vera e propria fabbrica – la Factory – si produssero centinaia e centinaia di esemplari.
Negli anni ’60 Andy Warhol, deciso a sperimentare e a sperimentarsi, fu fortemente influenzato dal cinema newyorkese, quello di nicchia s’intende, e iniziò a giocare con le riprese cinematografiche, un settore a cui si sarebbe molto dedicato, tralasciando spesso anche le sue attività principali.
Riprese quotidiane, di scene semplici, non precostruite, e che vedevano come protagonisti gli amici che frequentavano il suo studio, nel quale oltretutto molti di questi vivevano, sotto il perenne effetto di droghe e sostanze di ogni tipo.
Le attività riprese erano varie: mangiare, dormire, fare sesso; molto spesso si riprendevano semplici oggetti, immobili. Un cinema che certamente non trovò grande favore di pubblico, né di critica, a giudicare dal destino delle sue opere più famose e dal gran numero di fischi presi durante le proiezioni pubbliche.
Parliamo di Sleep, il primo film, girato nel ’63, in cui riprendeva John Giorno (il poeta con cui allora Andy Warhol intratteneva una relazione amorosa) dormire per 5 ore e 26 minuti composti da bobine di 4 minuti ciascuna. Un atto d’amore verso il suo amante, nato da una semplice domanda di Giorno che una volta vide Andy accanto a lui sul letto:
– che fai?
– Ti guardavo dormire
Tutto il film rigorosamente muto, come i successivi, tra cui Blow Job, del ’64, in cui per tutto il tempo si vede il viso di un ragazzo a cui qualcuno sta praticando del sesso orale; soltanto il viso, che basta come punto di collegamento con un titolo così forte.
Il vero “capolavoro”, se così possiamo definirlo, che celebra il connubio tra la sua pop art fatta di oggetti semplici e di uso comune e la cinematografia, è Empire, che mostra per più di 8 ore il celebre palazzo di New York, fermo, al suo posto, ripreso da una finestra del RockFeller Center. Cinepresa Auricon, ultimo modello, fissa per ore ed ore sullo stesso soggetto.
Arthur Danto, filosofo tra i maggiori esperti dell’artista, a cui dedica un’ampia biografia soffermandosi proprio sul suo rapporto con il cinema, spiega che questo film è proprio il punto più alto dell’opera di Andy Warhol:
Immaginiamo di chiederci in cosa consista l’essenza del cinema. Essa non può risiedere nel fatto di contenere delle immagini, poiché questo vale anche per le immagini fisse. […] In Empire l’immagine non si muove affatto. Se su uno schermo venisse proiettato Empire e su un altro un suo singolo fotogramma i due schermi si assomiglierebbero allo stesso modo in cui la Brillo Box assomiglia a una scatola Brillo. […] Allora forse si potrebbe dire che un film non è un’immagine che si muove, ma piuttosto un nastro di pellicola che si muove. Andy Warhol […] dimostrò che in un film non è necessario che l’immagine si muova. In realtà, solo in un film qualcosa può stare davvero fermo poiché nessuno, guardando una fotografia dell’Empire State Building, si chiederebbe perché non si muove.
Alla metà degli anni ’60, quando ormai le sue opere più famose erano già state realizzate ed esposte, la sua intenzione era chiudere con l’arte pittorica e dedicarsi al cinema: è possibile citare gli Screen tests, i circa 300 provini filmati di amici e sconosciuti frequentatori della Factory (ormai attrezzata a puntino come studio), Lonesome Cowboys, un film con protagonisti una donna, Viva, ed un gruppo di cowboy impegnati tra loro in giochi sessuali, o ancora The Chelsea Girls.
Ormai considerato dalla critica un cineasta, fosse anche solo per il suo nome e non per un reale interesse al suo lavoro, le cui basi erano sicuramente noia, monotonia ed amatorialità, negli anni ’70 decise di compiere il grande salto verso la televisione, definita il suo vero grande sogno. E, tra i vari progetti, come non ricordare gli “Andy Warhol’s fifteen minutes”, i famosi 15 minuti in cui accoglieva in studio una serie di celebrità intente a spiegare il motivo per cui erano famose. Celebrazione di una sua ossessione: essere una star, tra le star, in un mondo in cui tutti possono essere star. Il mondo patinato che tutti sognano.
Chi non conosce la frase a lui spesso attribuita “nel futuro ognuno sarà famoso per 15 minuti”, una frase profetica, in un’epoca in cui attraverso internet e i social tutti abbiamo l’ambizione di stare in vetrina almeno per 15 minuti e in cui raggiungere la fama ormai è davvero facile, così come perderla.
Antonella Pisano