“Avete scommesso sulla rovina di questo paese e avete vinto” sussurrata con voce stupida e gentile questa frase funge da suggello al finale di un film fortemente criticato e ampiamente discusso: Il capitale umano.
Il capitale umano, ispirato all’omonimo romanzo di Stephen Amidon (scrittore statunitense), è stato diretto da Paolo Virzì, uscito nella sale cinematografiche nel 2014, è stato oggetto di candidatura all’Oscar come miglior film straniero nel 2015 e vincitore di vari premi e riconoscimenti che hanno mirato a premiare soprattutto la sceneggiatura (frutto del lavoro di Carlo Varzì, Francesco Bruni e Francesco Piccolo) e la regia.
IV capitolo: Il capitale umano
La storia è raccontata in capitoli, seguendo i diversi punti di vista dei personaggi principali offrendo così una visione totale sulla vicenda che ruoterà completamente attorno ad un tragico incidente costato la vita ad un ciclista, avvenuto in circostanze non ben definite.
La pellicola è ambientata in Brianza, in uno di quei luoghi dove i natali sono freddi ed uggiosi, dove la nebbia divora i sensi.
Ogni protagonista (si parla di più protagonisti perché ad ogni personaggio è dedicato un piccolo spazio, un capitolo in cui ha la possibilità di raccontare se stesso e le emozioni provate in determinate circostanze) è doviziosamente caratterizzato, pronto ad interpretare un topos sociale. C’è la famiglia Bernaschi ricca, agiata e apparentemente felice e poi la famiglia Ossola di media estrazione sociale, il cui capofamiglia aspira ad elevare il proprio rango.
L’estrazione sociale in questa pellicola è un aspetto particolarmente rimarcato e malamente messo in discussione da buona parte della critica italiana che ha giudicato la trama semplicistica e ricca di cliché: prettamente manichea è la sua interpretazione che riduce ai minimi termini una trama sicuramente più complessa e significativa, che non è limitata dallo scontro tra i ricchi cattivi ed i poveri buoni ma intrisa di mille sfumature anch’esse fortemente caratterizzate.
Dino (Fabrizio Bentivoglio) cerca di fare leva sulla “relazione” (chiunque abbia già preso visione del film comprenderà il significato delle virgolette) tra la figlia Serena (Matilde Gioli) ed il ricco, benestante figlio di Giovanni (Fabrizio Giufani), Massimiliano (Guglielmo Pinelli).
Francesca (Valeria Golino) la compagna di Dino, crede di vivere una relazione sana sbagliandosi clamorosamente.
Carla (Valeria Bruni Tedeschi) è annoiata ed insoddisfatta mentre Giovanni, suo marito, è estremamente assorbito dal suo lavoro, preso a giocare ai dadi con le sorti finanziarie dell’Italia ed il risultato, forse, è il totale annichilimento del figlio Massimiliano.
Serena è il personaggio più interessante perché nella storia, che grossomodo si articola su due piani, quello della vicenda personale e l’altro che dedica la propria attenzione ad un aspetto più generale, che abbraccia la scadente e diffusa situazione economica prima morale poi dell’Italia, è colei che cambia le carte in tavola, quella che ha tra le mani il filo e lo attorciglia dove vuole o come il fato decide per lei.
La duplice forma della storia si evince da ogni capitolo nell’ambito del quale un livello è dedicato all’interezza delle emozioni, delle passioni dei personaggi e quindi alla loro sfera personale, dal secondo livello invece vengono estrapolati dei piccoli tasselli che vengono attratti, come dei piccoli pezzetti di ferro da un magnete, dalla generalità degli eventi.
Per quanto Serena abbia attorcigliato il filo per bene attorno alle maniglie di tante porte da lei chiuse c’è il personaggio finale, quello che brutalmente metterà da parte i sentimenti verso la propria amata figlia, che piano, di nascosto, al buio, entrerà in una delle porte lasciate accidentalmente aperta da Serena e come Atropo reciderà il filo aprendo tutte le altre lasciando fuoriuscire un vento di verità.
Dino come Atropo svelerà tutta la situazione, svelerà l’inaspettato colpevole, l’inaspettato ed involontario assassino e se ne servirà per trarre il proprio vantaggio, anzi… il proprio profitto.
La trama poggia certamente la propria schiena su un canovaccio, su personaggi legati a topos, ma non deve essere questo motivo di critica distruttiva o considerato ganglio nevralgico del film: la quasi macchiettistica interpretazione di alcuni attori è precisamente la realtà di molte famiglie spietatamente legate agli interessi economici ed alle apparenza più che alla sostanza delle relazioni.
Se si considera questo aspetto macchiettistico si considera tale la realtà e ciò sarebbe un inanellarsi di situazioni insostenibile.
In secondo luogo, alle vicende personali che fungono da cornice è fondamentale il secondo aspetto, quello generale e universale, quello che demarca gli eventi, che si evince da particolari della sceneggiatura (che risulta ottima, in quanto caratterizzata da molti particolari regionali, come ottima è la fotografia) come ad esempio una delle frasi più emblematiche dell’intera pellicola: “Avete scommesso sulla rovina di questo paese e avete vinto” dice Carla a Giovanni e quest’ultimo risponde: “Abbiamo vinto. Ci sei anche tu, amore”.
Passivamente complice di un gioco perverso ma economicamente forte e funzionate.
Corinne Cocca