Il cinema è uno dei più grandi mezzi espressivi, grazie a questo è in grado di trattare temi come il rapporto tra Amore e Morte nel mito di Orfeo e Euridice.
Il cinema, come si è visto, si presenta come una forma espressiva adeguata a trattare gli argomenti che sono propri della ricerca filosofica: il tempo, l’amore, il destino e, ovviamente, il rapporto fra realtà e rappresentazione.
Il cinema come forma espressiva, Gilles Deleuze
Abbiamo già visto come sul fondamento filosofico del cinema abbia insistito Gilles Deleuze, il quale sottolinea che gli autori cinematografici sono del tutto paragonabili a dei pensatori: «Essi pensano con immagini-movimento e immagini-tempo, invece che con concetti»[1].
Bisogna osservare, poi, che proprio in quanto forma espressiva esso può (e deve) essere letto non solo seguendo la forma cronologica ma anche a più livelli interpretativi. Sarebbe, del resto, inutile approcciarsi a una qualsiasi tematica filosofica solo come dei semplici catalogatori di informazioni senza applicare alcun approccio critico.
È per questo motivo che, in questo articolo, nel tentare di esplicare la modalità con cui il cinema si esprime sulla tematica del rapporto tra Amore e Morte, prenderemo in considerazione (e confronteremo) opere cinematografiche appartenenti a diversi momenti storici.
Amore e Morte, il mito di Orfeo e Euridice al cinema
Partendo dal presupposto che si dovrebbe considerare il cinema come amore: è impensabile e ignobile approcciarsi all’arte solo per un tornaconto economico. Per poter fare cinema bisogna amare il cinema, rispettandolo. È quindi ovvio che proprio a causa di ciò il cinema riesce a farsi carico del compito di mettere in scena l’Amore stesso.
Il primo rimando letterario e artistico che potremmo avere sul rapporto di Amore e Morte è di certo il mito di Orfeo e Euridice:
«Ed Ella, morendo per la seconda volta, non si lamentò; e di che cosa avrebbe infatti dovuto lagnarsi se non d’essere troppo amata? Porse al marito l’estremo addio, che Orfeo a stento riuscì ad afferrare, e ripiombò di nuovo nel luogo donde s’era mossa»
– Ovidio, Metamoforsi (X, 61-63)
Il tentativo di Orfeo fallisce non perché egli non ami abbastanza Euridice, né perché egli non prenda sufficientemente a cuore la salvezza della donna amata. Egli si volta proprio perché non può non voltarsi, proprio perché quello stesso Amor che lo ha condotto nelle profondità dell’inferno, infondendogli la forza e il coraggio di superare tutti gli ostacoli, gli impone di voltarsi.
Egli deve voltarsi.
«Amor condusse noi ad una morte»[2]
Ecco ancora un richiamo letterario: l’amore di Paolo e Francesca. Un amore talmente forte e travolgente da risultare addirittura peccaminoso, esso arriva a portare alla morte[3] gli amanti stessi. Ma Paolo e Francesca vengono raccontati come ancora uniti nonostante la bufera che li travolge: la loro unità è la condizione significativa e intima della profonda unione di cui l’Amore è, sempre, generatore.
Naturalmente, a questo punto, ci viene alla mente Orfeo (Orphée), film del 1950 diretto da Jean Cocteau, il quale racconta l’amore tra Orfeo e Euridice in chiave moderna. È un dramma metafisico e fa parte di una trilogia, assieme a Le sang d’un poète (1930) e a Le testament d’Orphée (1960).
«La leggenda di Orfeo è ben conosciuta. Nella mitologia greca, Orfeo era un cantore della Tracia. Il suo canto affascinava anche gli animali ma lo distraeva dalla moglie Euridice. La Morte gliela tolse. Lui discese agli Inferi ed usò il suo canto per ottenere di ricondurre Euridice nel mondo dei vivi. A condizione di non guardarla. Ma lui la guardò e venne fatto a pezzi dalle Baccanti.
Dove si svolge la nostra storia, ed in quale epoca? E’ privilegio della leggenda essere senza tempo.»
– Jean Cocteau
La potenza salvifica di strappare un individuo alla morte non appartiene all’uomo. Per quanto possa essere forte il legame, la morte arriva a presentarsi come una realtà inevitabile.
Come quasi fosse una punizione, i due estremi della stessa catena.
Tuttavia è (sempre) nella solidarietà tra gli afflitti, la quale si manifesta attraverso un disarmato riconoscimento a una comune appartenenza, che si intravede l’unica consolazione che spetta all’uomo: l’unico mezzo che abbiamo a disposizione per cercare di guarire dalla sofferenza che ci pervade è proprio l’amore, il contatto fisico.
E allora gli incubi si dissolvono facendo spazio a un sonno sereno.
Ed ecco che, mettendo in pratica ciò che abbiamo detto prima, analizzando le opere cinematografiche al di là della loro valenza storica, potremmo facilmente rievocare le inquadrature di Sussurri e grida (I. Bergman – 1972) e di Bringing out the Dead (M. Scorsese 1999).
La meravigliosa icona della pietà del primo, nel quale la domestica è l’unica che riesce a placare (con l’amore, appunto) l’agonia di Agnes; ed ella stessa ha bisogno di quell’abbraccio, lei stessa sente la necessità di dare a Agnes l’amore che in realtà avrebbe voluto trasmettere alla figlia morta prematuramente. Così come il finale del film di Scorsese (il quale si presenta in una luce diurna potentissima e si contrappone al cromatismo oscuro del resto del film) ci rappresenta una, seppur provvisoria, pacificazione.
Non si trattano di film che vogliono descrivere solo la disgregazione, la violenza e il dolore che arrivano a caratterizzare le relazioni che si instaurano tra le persone. Si tratta, invece, di ritrovare il senso profondo della condizione umana, di portar fuori la speranza.
Cira Pinto
[1] Immagine Movimento, Gilles Deleuze, p. 11.
[2] Dante Alighieri, La Divina Commedia – Inferno canto V, verso 105.
[3] A una morte: un supremo sigillo di un comune e indissolubile destino.