«e tu cosa sceglieresti tra il dolore e il nulla?»
Il cinema di Godard tende sempre a superare i vecchi limiti, a rinnovarsi costantemente e a marcare l’idea di un cinema che non vuole (e non può) essere un compromesso.
Nozioni biografiche
Jean-Luc Godard nasce a Parigi il 3 dicembre del 1930 in una famiglia dell’alta borghesia di origine svizzera grazie alla quale avrà la possibilità di avere un’adolescenza agiata (seppur turbata dalla propria naturale irrequietezza) e ottiene, nel 1949, un diploma in Etnologia alla Sorbona.
Alla fine degli anni Quaranta si avvicina al cinema frequentando la cineteca e i cineclub parigini a cui partecipano anche François Truffaut, Eric Rohmer, Jacques Rivette (e che arriveranno a costituire il nucleo principale della Nouvelle Vague).
Racconta Truffaut: «Ho incontrato Jean-Luc Godard verso il 1948, alla Cinémathèque di Avenue de Messine, e al cineclub del Quartiere del Latino, che faceva proiezioni al giovedì pomeriggio al Cluny-Palace. I film erano presentati da Eric Rohmer. E’ lì che ho conosciuto Rohmer, poi Rivette e Godard. In quel periodo io lavoravo sotto la direzione di André Bazin a “Travail et culture”. Credo che Godard fosse al primo anno. Rivette arrivava da Rouen e andava al cinema tutto il giorno. Il mio primo ricordo di Godard? Non portava gli occhiali, aveva i capelli ondulati, era molto bello, di tratti molto regolari. D’altronde Rivette l’ha scelto come attore per un filmetto che ha fatto a 16mm, La Quadrille, in cui recitava anche Anne-Marie Cazalis. Ciò che mi colpiva di più allora in Godard era il suo modo di divorare i libri. Se si era a casa di amici la sera era facile che aprisse 40 libri, guardando ogni volta la prima e l’ultima pagina. Era sempre molto impaziente, molto nervoso. Amava il cinema non meno di noi, ma era capace di andare a vedere un quarto d’ora di cinque film diversi nello stesso pomeriggio».
Nel 1950 partecipa alla fondazione di La gazette du cinéma e l’anno dopo comincia a collaborare con la rivista Cahiers du cinéma dove si esprime con una scrittura intensa, autonoma e attenta alle nuove ragioni estetiche del cinema.
«Noi ci consideravamo tutti, ai “Cahiers du Cinéma”, come futuri registi. Frequentare i cineclub e la Cinémathèque era già pensare cinema e pensare al cinema. Scrivere era già fare del cinema, perché tra scrivere e girare c’è una differenza quantitativa e non qualitativa.»[1]
L’esordio di Godard nel lungometraggio è nel 1959 con Fino all’ultimo respiro, girato in sole quattro settimane e con un budget limitato. Tuttavia ottiene il premio Jean Vigo e, proprio all’interno di questo film, sono rintracciabili tutte le deviazioni che Godard prenderà nei confronti dei modelli narrativi classici (al cinema de papà): attori che fanno uso dell’interpellazione, montaggio che non segue i canoni del découpage classico, etc…
Godard sceglie il nulla
Fino all’ultimo respiro è il ritratto di un disordine generazionale, ma a colpire è soprattutto lo stile. Nel film di Godard ci si rende presto conto che è originale il modo in cui gli eventi vengono rappresentati: si coglie l’istante, il non necessario, il provvisorio, le digressioni del racconto, che vengono portate in primo piano.
Il film si apre con Michel che ruba un’auto nel porto di Marsiglia e intraprende un viaggio fino a Parigi nel quale l’attore si presenta con un vero e proprio monologo (in cui interpella anche lo spettatore): «Se non vi piace il mare… Se non vi piace la montagna, se non vi piace la città… Andate a quel paese!».
Durante il viaggio Michel è inseguito da due poliziotti e ne uccide uno, riesce a scappare e raggiunge Parigi dove ritrova Patricia, la ragazza di cui si innamora e che vorrebbe portare con sé in Italia. Il passaggio dalla scena in cui avviene l’omicidio a quella successiva è rapido, viene evidentemente data molta più importanza al dialogo che il protagonista avrà con l’amante mentre passeggiano per gli Champs-Elysees. È di fondamentale importanza, per gli autori della Nouvelle Vague, la scelta di Parigi come città che fa da sfondo a tutte le loro storie. Parigi è definita da Benjamin, nel Novecento, la città-labirinto, la sua espansione turba e in essa l’uomo si perde diventando un elemento qualsiasi della massa. Ma nel film di Godard ci sono degli individui che non riescono a entrare nella moltitudine, a omologarsi, lottano per affermare la loro individualità.
Abbiamo aperto l’articolo proprio con una citazione tratta da questo film. La scena in questione è la più lunga (dura ben ventitré minuti) ed è girata all’interno della stanza 12 dell’Hotel de Suede. È un dialogo che può apparirci del tutto casuale, ma è in questo dialogo che si fa luce sulla vera natura di Michel.
Patricia legge un passo del libro Palme selvagge (1939- William Faulkner): «Fra il dolore e il nulla io scelgo il dolore» e chiede: «E tu, cosa sceglieresti?», dopo una breve e poco convinta digressione sull’importanza dei piedi nella donna Michel risponde: «Il dolore è idiota. Io scelgo il nulla. Non è meglio, ma il dolore è un compromesso. O tutto o niente».
Michel (o Godard?) sceglie il nulla, il nulla come scelta più radicale; rifiuta categoricamente il compromesso, anche nella scena finale dove muore da suicida (anche se è un altro a sparargli).
Di certo i film di Godard non sono semplici da seguire; i livelli di comprensione (e di compressione semantica) si sommano, formando una struttura che si sviluppa in profondità. Allo stesso tempo le tematiche affrontate appaiono importanti e complesse e i riferimenti (più o meno espliciti) ai suoi maestri in ogni campo dell’arte e della cultura sono innumerevoli. Per poter comprendere e far proprio il cinema di Godard è inevitabile e necessario documentarsi sul background culturale dello stesso regista, il quale si pone continuamente come «l’anima critica della Nouvelle Vague».
Cira Pinto
Bibliografia:
· Introduzione alla storia del cinema, a cura di Paolo Bertetto
· Jean-Luc Godard, Due o tre cose che so di me. Scritti e conversazioni sul cinema.
· Jean-Luc Godard, Il cinema è il cinema.
[1] Il cinema è il cinema