Personalità di spicco quasi assurta all’intangibilità del semidio le cui mani plasmano cult, J. J. Abrams ha senza dubbio contribuito a dare alla televisione dei primi anni 2000 alcuni dei suoi tratti caratterizzanti.
Se già dal 1998 al 2002 gli 84 episodi del teen drama “Felicity” segnarono un’epoca (almeno negli Stati Uniti) aggiudicandosi una buona posizione in più di qualche celebre “top 100 best tv shows”; se poi anche la sua seconda creazione, “Alias”, andata in onda dal 2001 al 2006, richiamò più di 9 milioni di spettatori in patria e quasi 3 qui da noi; fu poi dopo, nel 2004, che il caso J. J. Abrams esplose: il 22 settembre venne trasmesso il primo episodio di uno dei prodotti televisivi più famosi di sempre, “Lost”, che stabilì uno standard con cui in seguito tutte le serie made in USA dovettero, e devono tutt’oggi, confrontarsi.
J. J. Abrams al cinema
Nel 2006 esce la prima pellicola diretta da J. J. Abrams destinata al grande schermo: “Mission: Impossible III” (con protagonista sempre Tom Cruise nei panni di Ethan), la cui prima funzione effettiva – forse l’unica di qualche valore – è fare da palcoscenico alla coinvolgente regia del mitico creatore di “Lost”. Senza macchia di virtuosismo né alcuna traccia di pretesa intellettuale o morale, ma con uno spirito puramente nerd, l’azione pervasiva e la classica concitazione esplosiva di “Mission: Impossible” sono dirette diligentemente, e con una strizzatina d’occhi ai fan del genere e soprattutto della saga.
Luther: “[Ethan] Ce l’ha fatta! Ce l’ha fatta!… Tanto si sapeva.”
Non a caso J. J. Abrams viene poi chiamato a dirigere il reboot di quell’agonizzante “Star Trek” che nessuno ricordava più. E allora si dimostra magistrale interprete dell’etichetta non scritta vigente nel mondo cinematografico nerd: opta per un rilancio, ma senza dichiararsi degno della storica saga classica al punto da riprenderla dove era finita, o da manipolarla, o addirittura da stravolgerla per “migliorarla”. Invece, mettendo in campo tutto il suo sapere di fan dello spazio e della fantascienza, e omaggiando ma lasciando da parte quanto fino ad allora era stato creato, il regista riporta a zero la storia dei tre personaggi principali, il capitano Kirk, Spok e Uhura (rispettivamente Chris Pine, Zachary Quinto e Zoë Saldaña), per proseguire poi nel 2013 con “Into Darkness – Star Trek”.
La continuity volontariamente non è rispettata e lo stile è sapientemente rimodernato, conservando però lo spirito colorato e fantasioso che era il marchio del prodotto: se la missione affidata a J. J. Abrams era rinnovare la saga e renderla di nuovo attraente per il pubblico, si può dire che ci sia riuscito.
Nel 2011 esce poi “Super 8”, evidente richiamo agli anni ’80 (come spiega giocosamente il titolo stesso), a E.T. e ai Goonies. Chi è figlio di quegli anni si ritrova bambino mentre segue l’avventura di otto ragazzini alle prese con una presenza aliena sotterranea: senza rivoluzionare quello che è il riconoscibilissimo spirito dei film per ragazzi di trent’anni fa, J. J. Abrams costruisce una pellicola che è tutta una citazione, perfetta, dalle musiche ai personaggi, dalle atmosfere allo spirito indipendente che guida il gruppetto di pre-adolescenti, sino al finale buonista e mieloso (dove si sente la pesantissima mano del produttore, Steven Spielberg).
“Super 8” basa la sua efficacia sulla nostalgia più che su effettivi pregi di trama: la regia stessa si potrebbe quasi definire emotiva nella sua ricerca costante del battito cardiaco facile. Il punto di forza sono i personaggi, i ragazzini di dodici o tredici anni che con un’autentica passione e con mezzi di fortuna cercano di girare il loro film sugli zombie, che ne sanno molto di più di quegli adulti con i paraocchi, che se ne fregano degli obblighi e dei ruoli di cui forse non hanno ancora una visione chiara.
L’arte di sapersi vendere
J. J. Abrams non è da considerarsi solo un regista, o uno sceneggiatore, o un produttore. È una di quelle creature ibride che si sanno muovere con maestria tra le mareggiate repentine e capricciose legate ai blockbuster. Ha intuito, ha uno stile riconoscibile, sa trattare magnificamente con il pubblico e sa vendere i propri prodotti, e ne è capace innanzitutto perché è lui stesso il primo fan di ciò che crea.
Sono celebri le sue campagne pubblicitarie, spesso più di successo e più innovative del film. Ne è un classico esempio “Cloverfield” (Matt Reeves – 2008), di cui J. J. Abrams era produttore: si partì con un primo teaser trailer che giocava sull’assenza totale di informazioni, tranne che per il nome del produttore stesso; si proseguì poi con un crescendo di immagini che miravano a stuzzicare la curiosità senza soddisfarla; e continuò così fin quasi alle soglie dell’uscita in sala. Un altro esempio è la campagna pubblicitaria virale di “Super 8”, tutta volta a coinvolgere ogni mezzo di comunicazione pensabile; ed è stato lo stesso per molti dei prodotti televisivi e soprattutto cinematografici che J. J. Abrams ha curato.
Questo mese si è raggiunto il culmine del battage pubblicitario dell’ultimo lavoro del regista, “Star Wars: Il risveglio della Forza”, in uscita da noi il 16 dicembre. Già di per sé sarebbe stato un evento commerciale di proporzioni bibliche – sono prevedibili veri e propri esodi verso qualunque sala cinematografica disponibile – con tutte le implicazioni che un pilastro generazionale come Star Wars porta con sé da decenni. Grazie poi al caldissimo nome di J. J. Abrams la risonanza dell’avvenimento ha raggiunto vette impensabili, diventando il centro gravitazionale di un’operazione di marketing da cui più nulla, in ambito di intrattenimento, può prescindere.
Chiara Orefice