Paul Celan (1920 – 1970) è stato un poeta rumeno ebreo, di madrelingua tedesca, nato nel capoluogo della Bucovina settentrionale, oggi parte dell’Ucraina, ed ha vissuto direttamente le deportazioni naziste durante la Seconda guerra mondiale.
Celan ha lasciato una delle più espressive testimonianze in versi di una delle vicende più tragiche e assurde della storia dell’umanità. Il punto fermo della sua poesia è stata la Shoah, perché in essa perse entrambi i genitori, mentre il giovane Antschel (Celan, il suo nome d’arte è l’anagramma del suo vero cognome in ortografica rumena Ancel, ideato solo nel 1947) riesce a sfuggire alla deportazione ma viene spedito in diversi campi di lavoro in Romania. Lui stesso a 50 anni si uccise buttandosi nella Senna: il suo corpo fu ritrovato dieci giorni dopo.
Celan e la shoah in poesia
Molti critici si sono interrogati sulla scelta di scrivere in lingua tedesca che imparò dalla madre, ma lingua dei nazisti, degli assassini dei suoi genitori, soprattutto perché Celan parlava e scriveva correttamente in almeno sette lingue.
Lo stesso Celan scrisse che non credeva affatto al bilinguismo in poesia, proprio perché «poesia vuol dire, fatalmente, unicità della lingua». La scelta di scrivere nella doppia accezione di lingua materna e lingua della madre, è vitale. Solo in questa lingua il poeta può rincontrare la madre e farsi carico della sua incontestabile testimonianza.
“In fondo
al crepaccio dei tempi,
(…)
attende, un cristallo di respiro,
la tua immutabile
testimonianza.“
Atemkristall, “Cristalli di respiro” è una raccolta di brevi poesie non recanti alcun titolo, che Celan infoltisce di metafore oscure. Tutte le poesie sono un tentativo di dialogo fra un io e un tu, che tuttavia sarebbe forzato e sbrigativo individuare con l’io del poeta nel suo dialogo con la moglie, o la madre, o una sorta di donna o altro ideale, o addirittura con il Nessuno della Niemandsrose (la “Rosa di Nessuno“) o con altre figure astratte.
Celan sembra cercare un tu con cui dialogare e a cui affidare il peso del rendere testimonianza per quei “nessuno” che non possono più farlo. Senza dubbio in ogni caso, il tema della deportazione è evocato chiaramente in una delle ultime poesie del ciclo, dove si allude alla “nera carrozza del serpente” in cui “al di là del fiume/ti trassero”.
“Nella carrozza del serpente, lungo
il corteo di bianchi cipressi,
al di là del fiume
ti trassero.Ma in te, per
nascita,
gorgogliava l’altra fonte,
sul nero
getto di memoria
ti innalzasti alla luce.”
Todesfuge, ovvero “Fuga di morte” è probabilmente la lirica più famosa di Paul Celan; in essa il poeta denuncia la condizione dei prigionieri, e mette a nudo la crudeltà dei carcerieri nazisti con un forte grido di dolore che si innalza nell’orrore infinito della realtà bestiale del campo di concentramento.
Todesfuge divenne quindi l’emblema poetico della riflessione critica intorno all’Olocausto, soprattutto essendo stata scritta da un ebreo, che aveva conosciuto la realtà dei lager, e tuttavia in lingua tedesca – la lingua che Celan apprese dalla madre. Il titolo fuga è da intendere nel suo significato musicale. Celan coniuga la morte con il ritmo musicale proprio della Fuga, che si propone di riprodurre nell’andamento dei suoi versi.
Il componimento si apre con un ossimoro: “latte nero” simboleggia l’esperienza atroce della privazione del cibo e di tutto ciò che è necessario per vivere. Questa immagine è ripresa in anafora all’inizio delle strofe che compongono la poesia mettendo in questo modo l’accento sulla triste monotonia che affliggeva i lavoratori dei campi di concentramento.
Un vortice di parole, che ripetendosi, portano l’attenzione del lettore sulle fosse che sono costretti a scavare, in terra e nelle nuvole, pronte ad essere occupate dai resti degli ebrei, controllati a vista dagli “occhi azzurri” degli uomini che “giocano con i serpenti” e che “scrivono ai capelli d’oro”, palese riferimento alla razza ariana predicata da Hitler. La poesia contrappone due donne: Sulamith, ebrea prigioniera del campo, e Margarete, amante ariana dell’ufficiale della Gestapo.
“Nero latte dell’alba lo beviamo la sera
lo beviamo a mezzogiorno e al mattino, lo beviamo la notte
beviamo e beviamo
scaviamo una tomba nell’aria, là non si giace stretti
Nella casa abita un uomo che gioca con i serpenti che scrive
che scrive all’imbrunire in Germania i tuoi capelli d’oro, Margarete
lo scrive ed esce dinanzi a casa e brillano le stelle e fischia ai suoi mastinifischia ai suoi ebrei, fa scavare una tomba nella terra
ci comanda “ora suonate alla danza”.Nero latte dell’alba, ti beviamo la notte
ti beviamo al mattino e a mezzogiorno, ti beviamo la sera
beviamo e beviamo
Nella casa abita un uomo che gioca con i serpenti, che scrive
che scrive all’imbrunire in Germania i tuoi capelli d’oro, Margarete
i tuoi capelli di cenere, Sulamith, scaviamo una tomba nell’aria, là non si giace stretti
……………Nero latte dell’alba, ti beviamo la notte
ti beviamo a mezzogiorno, la morte è un maestro tedesco
ti beviamo la sera e la mattina beviamo e beviamo
la morte è un maestro tedesco, il suo occhio è azzurroti colpisce con palla di piombo, ti colpisce preciso
nella casa abita un uomo, i tuoi capelli d’oro, Margarete
aizza i suoi mastini contro di noi, ci regala una tomba nell’aria
gioca con i serpenti e sogna la morte è un maestro tedescoI tuoi capelli d’oro Margarete.
I tuoi capelli di cenere Sulamith.”
Ebreo e rumeno, Celan espresse la sua esperienza nei campo di sterminio nella lingua della cultura di molti ebrei dell’Europa centrale, quella lingua ricordata con nostalgia e disperazione dagli esuli ebrei, ossia quel tedesco divenuto poi la lingua dei carnefici, ed indica anche una delle prime forme della necessità di dare voce allo sterminio.
Nell’immediato dopoguerra aleggiava nell’aria e nei sentimenti un’angoscia tale da persuadere gli intellettuali dell’impossibilità della poesia dopo Auschwitz indicando la impossibilità della cultura di ergersi a segno discriminate rispetto alla barbarie. Celan all’epoca fu controcorrente, e nonostante la sua amara esperienza, la poesia con lui diviene testimonianza dell’orrore della shoah.
Si trattava proprio di “estetizzare” il dolore e il trauma, e se ciò può sembrare immorale, vero è che solo la poesia o la scrittura di finzione permette al dolore di esprimersi attraverso una trasfigurazione letteraria che rende dicibile l’indicibile, che permette alle sensazioni, alle paure, agli orrori della psiche di cristallizzarsi nelle tecniche di composizioni letterarie.
Maurizio Marchese
Bibliografia:
Celan Paul, La verità della poesia. «Il meridiano» e altre prose, Torino: Einaudi, 1998
Celan Paul, Sachs Nelly, Corrispondenza, Genova: Il Melangolo, 1993
Sitografia:
http://formiche.net/2015/01/27/la-shoah-paul-celan/
http://storicamente.org/27_gennaio