La figura del ciclope Polifemo è nota ai più per il celebre episodio che lo vede protagonista nel nono libro dell’ Odissea di Omero. Figlio del dio Poseidone, il ciclope è sicuramente una delle figure più mostruose e brutali che l’immaginario mitologico abbia mai prodotto. Non è solo il suo aspetto fisico ad incutere timore e disgusto, caratterizzato dall’enorme ed unico occhio che si ritrova in fronte, ma anche dai suoi stessi atteggiamenti rozzi ed incivili. Nonostante questi difetti, anche Polifemo ha avuto un cuore non estraneo all’amore. Ebbene sì, anche Polifemo ha avuto la famosa “cotta”, naturalmente non ricambiata. Chi gli ha fatto perdere la testa? Una ninfa di nome Galatea, protagonista di una storia che ha come sfondo la Sicilia. In questo articolo tratteremo la storia d’amore di Polifemo e Galatea.
La storia di Polifemo e Galatea
Figlia di Doride e Nereo, Galatea era una ninfa marina (detta anche Nereide). Viveva alle pendici dell‘Etna ed era innamorata del pastore Aci, il quale ricambiava il sentimento. Ma anche Polifemo era interessato alla ninfa e usò la propria abilità nel suonare il flauto per attirare la sua attenzione, senza alcun risultato. Un giorno il ciclope sorprende Galatea ad Aci assieme e, mosso dalla gelosia, scaglia un masso contro il pastore e lo uccide. Disperata, Galatea trasforma il sangue dell’amato in una sorgente e così i due giovani possono amarsi per l’eternità.
Come ogni mito che si rispetti, anche la storia di Polifemo e Galatea si pone l’obiettivo di spiegare l’origine delle cose. Il nome del pastorello è infatti legato alla toponomastica di alcuni luoghi dell’isola: basti pensare ad Aci Trezza ed Aci reale, dove scorre la sorgente che gli abitanti chiamano “il sangue di Aci“.
Il Polifemo di Ovidio, un mostro passionale
La vicenda di Polifemo e Galatea non poteva passare inosservata agli scrittori. Nel XIII libro delle Metamorfosi Ovidio racconta la storia per bocca della stessa Galatea. Ecco come descrive la dichiarazione d’amore che le fa il ciclope:
[…] Io nascosta dietro una rupe,
rannicchiata sul seno del mio Aci, colsi di lontano
il suo canto, di cui ricordo ancora le parole:
“O Galatea, più candida di un candido petalo di ligustro,
più in fiore di un prato, più slanciata di un ontano svettante,
più splendente del cristallo, più gaia di un capretto appena nato,
più liscia di conchiglie levigate dal flusso del mare,
più gradevole del sole in inverno, dell’ombra d’estate,
più amabile dei frutti, più attraente di un platano eccelso,
più luminosa del ghiaccio, più dolce dell’uva matura,
più morbida di una piuma di cigno e del latte cagliato,
e, se tu non fuggissi, più bella di un orto irriguo;
ma ancora, Galatea, più impetuosa di un giovenco selvaggio,
più dura di una vecchia quercia, più infida dell’onda,
più sgusciante dei virgulti del salice e della vitalba,
più insensibile di questi scogli, più violenta di un fiume,
più superba del pavone che si gonfia, più furiosa del fuoco,
più aspra delle spine, più ringhiosa dell’orsa che allatta,
più sorda dei marosi, più spietata di un serpente calpestato,
e, cosa che più d’ogni altra vorrei poterti togliere,
più veloce, quando fuggi, non solo del cervo incalzato
dall’urlo dei latrati, ma del vento che soffia impetuoso!
Ma, se mi conoscessi meglio, ti pentiresti d’esser fuggita
e, cercando di trattenermi, condanneresti il tempo perduto.
[…]
Chi ha in mente l’Odissea noterà sostanziali differenze con il Polifemo Omerico. Non è più il rozzo mostro che si fa beffa di uomini e déi, ma diventa un amante che si strugge profondamente per amore. Senz’altro è un amante smielato e a tratti goffo, ma che lascia sorpreso il lettore che è abituato ad attribuire ogni concetto alla figura del mostro, tranne l’amore. Anzi, pur di fare suo il cuore della ninfa, Polifemo le espone tutti i suoi “pregi”.
Osserva quanto son grande: neppure Giove in cielo ha un corpo
grande come il mio (voi parlate sempre che lì regna
un non so quale Giove). Una chioma foltissima mi spiove
sul volto truce e mi vela d’ombra le spalle, come un bosco.
E non credere brutto che il mio corpo irto sia tutto di fittissime
e dure setole; brutto è l’albero senza fronde, brutto
il cavallo senza criniera che gli ammanti il biondo collo;
piume ricoprono gli uccelli, beltà delle pecore è la lana:
agli uomini si addicono la barba e il pelo ispido sul corpo.
Ho un occhio solo in mezzo alla fronte, ma a un grande scudo
lui assomiglia. E poi? Dall’alto del cielo il Sole non vede
tutto l’universo? Eppure anche lui ha un occhio solo.
[…]
Naturalmente Galatea non ricambia questo sentimento e a farne le spese è il povero Aci, ucciso dal gigante. Ma questo sacrificio è, come si è già detto, un modo per spiegare qualcosa. Non è soltanto il racconto dell’origine di un luogo, ma è anche il racconto dell’affascinante connubio tra vita e morte, di come queste siano concatenate e di come la fine non sia mai tale, ma l’origine di una nuova esistenza.
Ciro Gianluigi Barbato