Tutta l’opera di Franz Kafka, com’è noto, si caratterizza per atmosfere da incubo in cui l’individuo si dibatte senza possibilità di svegliarsi né di potersi liberare.
Le situazioni paradossali create dallo scrittore praghese sono sempre un po’ angoscianti; situazioni che vengono accettate come status quo e che realizzano un contrasto che sembra irragionevole anche se in realtà rivela un aspetto profondo, riuscendo a sconvolgere e spiazzare il lettore.
L’origine di queste atmosfere può essere rintracciata sia nella vicenda autobiografica che in quella intellettuale dello scrittore: ebreo boemo di lingua tedesca e acuto interprete delle paure e delle ossessioni della società europea del primo Novecento.
“Kafkiane” è il termine con cui ormai si indica questo tipo di situazioni. Kafka con la sua scrittura scuote la coscienza del lettore, privandolo di qualsiasi rassicurante certezza e lo pone senza scampo di fronte a una situazione problematica.
“Qualcuno doveva aver calunniato Josef K., perché senza che avesse fatto niente di male, una mattina fu arrestato.” (Franz Kafka, Il processo)
“L’avvoltoio” è un brevissimo racconto che appartiene a un folto gruppo di inediti che Kafka, prima di morire, aveva affidato all’amico Max Brod, perché li distruggesse. Fortunatamente Brod non se la sentì di eseguire la richiesta dell’amico e li fece pubblicare dopo la sua morte.
Scritto intorno al 1920, il racconto in forma di metafora contiene gli aspetti più tipici dell’opera di Kafka: l’assurdità delle situazioni descritte, appunto “kafkiane”, che pure rimandano a profondi significati esistenziali: l’atmosfera angosciosa e inquietante come quella di un incubo, il senso di impotenza del protagonista, la presenza del tema della colpa e della condanna, ma anche una vena di sottile ironia, che si fonde paradossalmente con la sostanza drammatica del testo, rendendone ancora più emblematico il senso.
Senza fornire notizie sul suo conto né dell’ambiente il protagonista racconta di essere tormentato da un avvoltoio che gli becca con violenza i piedi. Un passante, che giunge quando ormai i piedi sono lacerati, chiede al protagonista perché mai non reagisse per scacciare il feroce volatile: nonostante il tormento sembra essergli indifferente e costretto ad accettarlo.
Il passante propone uno sparo per liberarsi dell’avvoltoio e il malcapitato protagonista acconsente dicendo che non sa se riuscirà a resistere mezz’ora, tempo necessario perché il soccorritore torni a casa a prendere l’arma. Non appena il protagonista è di nuovo solo con l’avvoltoio, si rende conto che l’uccellaccio ha capito tutto e si accinge a prendere lo slancio all’indietro per affondare il becco attraverso la bocca dell’uomo che morendo soffoca l’avvoltoio nel suo sangue.
“Mi accorsi che aveva capito tutto. Si alzò in volo, indietreggiò per prendere lo slancio sufficiente e, come un lanciatore di giavellotto, lanciò il becco nella mia bocca, a fondo dentro di me. Cadendo all’indietro, liberato, sentii che nel mio sangue che riempiva tutte le mie cavità, che superava ogni argine, quello irrimediabilmente affogava.”
Nonostante la prevalente angoscia, nel racconto sono presenti, anche se con minore evidenza, tracce di sottile umorismo, che si fondono paradossalmente con la violenza del dramma, e che è possibile cogliere in diversi punti: nell’indifferenza del protagonista immerso in una situazione atroce; nella tranquillità del dialogo col passante e nel finale, quando l’avvoltoio viene sconfitto affogando irrimediabilmente nel sangue della vittima, che si sente così finalmente liberata.
La dimensione simbolica del racconto è subito sancita dall’incipit fiabesco; il suo significato va cercato oltre il piano letterale della situazione, che se pur descritta con rigore realistico, si presenta assurda, allo stesso modo in cui possono essere assurdi i sogni o gli incubi. Testi come questo lasciano spazio a molteplici letture, sfuggendo alla possibilità di una interpretazione univoca e definitiva.
Kafka come Prometeo?
Quel che indubbiamente domina nel breve racconto è l’atmosfera angosciosa, con il protagonista immobile sotto la minaccia dell’avvoltoio, una situazione che richiama il mito di Prometeo colpevole di aver donato il fuoco agli uomini e per questo incatenato ad una rupe dove un’aquila gli rode il fegato in continuazione.
Come Prometeo, anche il protagonista è colpevole ma non sa di cosa. In molti racconti di Kafka la colpa non ha motivazioni concrete, ma è un dato di fatto, una dimensione normale dell’esistenza (dovuta probabilmente ad una componente della fede ebraica dello scrittore praghese).
Il tema della colpa nel racconto emerge nel momento stesso in cui il narratore accetta di essere inerme di fronte alla sua condanna. Infatti arrendendosi all’avvoltoio egli si ritiene colpevole di qualcosa che forse a uno strato superficiale vuole ignorare, ma che inconsciamente è legato alla sua esperienza. Il protagonista non tenta di far nulla per mutarla, nemmeno la proposta d’aiuto del passante è vissuta da lui con intensità emotiva, ma con una certa indifferenza.
“Passò un signore, guardò per un momento e poi chiese perché sopportassi quell’avvoltoio. “Sono inerme,” dissi, “è arrivato e si è messo a darmi colpi di becco. Naturalmente volevo cacciarlo via, ho persino cercato di soffocarlo, ma una simile bestia ha grandi energie. Stava già per saltarmi in faccia, allora ho preferito sacrificare i piedi. Ora sono già quasi dilaniati.”
Per la critica, da questo racconto traspare il difficile rapporto di Kafka con suo padre che avrebbe creato il disagio psichico manifestato in questo racconto come in altre opere: Kafka con i suoi protagonisti rivive le sue angosce interiori, delle quali alla fine sembra potersi liberare solo con la morte, perciò quest’ultima sopraggiunge come una vera e propria liberazione.
Maurizio Marchese
Bibliografia:
Franz Kafka, Tutti i racconti, Mondadori, Milano, 1990.