Dai tempi di Dante, nessun poeta aveva mostrato l’inferno ai suoi lettori come fa Baudelaire nei suoi Fiori del Male. Con una poesia così diversa da quella del Sommo, una poesia che si può definire maledetta, Charles Baudelaire accompagna il suo lettore in un viaggio che parte dal cielo – con la figura maestosa dell’albatros – e termina in un faccia a faccia con Satana. Novello Virgilio, fa notare al lettore che non è necessario scavare così tanto nella terra per trovare dei demoni: intorno a lui ci sono soltanto uomini divorati dai vizi.
I Fiori del Male: un viaggio, due direzioni
Sono infiniti gli aspetti e innumerevoli le comparazioni che ci sono tra le due opere più importanti di Charles Baudelaire e Dante Alighieri. Eppure, forse la caratteristica più affascinante che le accomuna è il tema del viaggio. Un percorso che si sviluppa sullo stesso binario, ma in direzioni completamente opposte.
Baudelaire è infatti prima di tutto un uomo moderno. Il suo percorso non si snoda attraverso limbi infernali, ma tra le strade di Parigi, dove è pronto ad accogliere in sé la modernità. È questo il suo inferno: la metropoli ai suoi albori vista dagli occhi di un parigino.
Tutt’intorno e anche dentro di lui, la trasformazione industriale di una città che sforna nuovi mali: inquinamento, droga, prostituzione; insomma il decadimento dell’uomo accompagnato dall’immancabile senso di isolamento e solitudine. Le persone diventano una folla, una moltitudine anonima ed estranea. Un posto dove lui, il poeta, non vi appartiene: vi si isola fiondandosi nei propri ricordi.
L’esperienza che si può fare in un inferno simile non è nient’altro che un viaggio attraverso angoscia e malinconia. Siamo a metà dell’Ottocento, quando il positivismo era la corrente filosofica dominante. Tutti credevano nella forza del progresso, nel rigore scientifico che avrebbe fatto avanzare la società moderna. Baudelaire è stato il primo a verificare gli effetti di questa rivoluzione industriale: nei suoi Quadri Parigini l’inquadratura classica è spostata verso l’esterno, verso le periferie degradate che stanno nascendo.
Da questo punto di vista, Baudelaire si pone come il primo dei poeti moderni. Dopo di lui, e lo testimoniano i suoi “allievi” Rimbaud, Verlaine, Mallarmé, il modo di fare poesia cambia. La camera della regia si sposta verso gli aspetti più degradati della civiltà.
Discesa negli abissi
Il suo è quindi un viaggio nel mondo che cambia ma è soprattutto anche un percorso interiore. In lui convivono lo spleen e l’ideale. Qualcuno diceva che la vita è un pendolo che oscilla tra la noia e il piacere, per Baudelaire quel pendolo oscilla tra lo spleen, il male di vivere perenne, e l’ideale, nel quale il desiderio di elevazione personale convive con l’istinto autodistruttivo della degradazione.
Sperimenta che gli unici modi per sopravvivere a questo quadro degradante è rifugiarsi nei paradisi artificiali: vino, sesso, oppio. Sono vie di fuga illusorie: al poeta, stanco di questo mondo e sazio d’ogni cosa, non resta altro che rifugiarsi tra le braccia della morte; fosse anche solo per provare il gusto di qualcosa di nuovo. Dio viene rigettato, mentre la poesia si tramuta in bestemmia.
Tutto ciò avviene nelle ultime pagine de I Fiori del Male. Si parte dalla maestosità dell’albatro, che per Coleridge era simbolo divino, e si arriva ad un vero e proprio inno a Satana. Il percorso opposto rispetto a quello di Dante, che anche fu un visionario per la sua epoca.
La lettura de I Fiori del Male è di una attualità toccante e sconvolgente. Charles Baudelaire, un poeta fuori dal tempo che ha descritto l’inferno terrestre ben prima che l’uomo si rendesse conto di viverci dentro.
Mario Altrui
Fonti:
A. Prete, I fiori di Baudelaire. L’infinito delle strade, Roma, Donizelli, 2007.
G. Cacciavillani, Introduzione a Charles Baudelaire, I Fiori del Male, Firenze, Giunti Editore, 2007.
G.B. Squarotti, Storia e antologia della letteratura, Vol. 5, Bergamo, Atlas, 2010.