Medea è stata protagonista non soltanto della tragedia greca, ma anche di quella latina. Difficilmente un uomo autenticamente romano, magari di epoca repubblicana, legato al mos maiorum, avrebbe rielaborato la storia di una donna barbara che per vendetta e gelosia uccide i figli avuti dal consorte: dobbiamo dunque aspettare l’epoca imperiale ed un filosofo per assistere ad una originale trasposizione del mito colchide in terra latina.
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La trama della Medea
La trama della Medea senecana non differisce quasi in nulla rispetto all’originale di Euripide: Medea, principessa dei Colchi, fugge con Giasone verso Corinto, a costo della vita del fratello, che ella stessa uccide. Quel che la donna è riuscita a fare in nome dell’amore per Giasone è solo una triste premonizione di ciò che accadrà dopo. Giasone, resosi conto di non poter contare su Medea, donna barbara, per portare avanti la dinastia, le comunica che è costretto ad abbandonarla per una vera principessa greca, Creusa.
Medea, invasa e distrutta dal dolore del tradimento, e senza la possibilità di scappare con Egeo (possibilità che invece era presente in Euripide), decide di vendicarsi nel modo più cruento possibile: togliere a Giasone i figli che lui stesso aveva deciso di portare con sé nella nuova casa, perché troppo affezionato a loro. La donna si serve innanzitutto dei due bambini per far fuori la nuova consorte. Essi si recano al matrimonio con la scusa di un dono nuziale per la sposa: un peplo che, appena indossato, sprigiona il veleno in cui è stato intinto.
Creusa muore per gli spasmi e il padre, gettatosi per liberarla da quella trappola letale, perisce con lei poco dopo. Giasone, sconvolto, non immagina nemmeno ciò che lo aspetterà. Medea è capace di uccidere addirittura i suoi stessi figli davanti agli occhi del consorte, per poi volare via, in un ghigno perfido, su un carro che la porterà lontano.
L’interpretazione di Euripide
Questo mito così cruento era stato affrontato da Euripide lasciando parlare da sé i personaggi. È davvero difficile, leggendo la tragedia greca, intuire quale fosse il pensiero del tragediografo al riguardo, da che parte stesse, se giustificasse o biasimasse Medea.
Euripide non si esprime mai sulla scena: lascia che l’azione si svolga da sé e che il coro spieghi il senso “letterale” della tragedia senza scendere in interpretazioni, perché ogni singolo spettatore dovrà formare la propria opinione senza condizionamenti esterni.
È pur vero che il pensiero che anima le tragedie di Euripide sembra indirizzarci verso una “giustificazione” del comportamento di Medea: il tragediografo greco attraverso i drammi altro non fa che rappresentare il thumòs, l’impulso nero che ognuno di noi dentro inconsciamente custodisce. L’uomo non è razionalità, ma è soprattutto istinto, spesso omicida, violento, che può portare in alcuni casi anche una madre ad uccidere i propri figli. Non è una vera e propria giustificazione, ma una lezione che Euripide vuole rammentarci: dentro di noi coviamo dei demoni e dei mostri che nemmeno intuiamo.
La versione di Seneca
Passando al mondo latino, è chiaro che Seneca, filosofo ma pur sempre uomo romano, non potesse rappresentare in maniera così neutra un mito inaccettabile per il mos maiorum: non solo una donna capace di azione, ma anche omicida! Ecco che dunque Seneca, attraverso il coro condanna in maniera impetuosa Medea: ella è una donna fuori controllo, un animo che ha ceduto alle passioni, al rancore e alla gelosia, abbandonando quell’atarassia che della filosofia stoica è il centro focale.
Giasone, invece, non è dipinto come un uomo crudele, insensibile, immobile persino di fronte alle lacrime di Medea. Egli appare, al contrario, proprio come un filosofo, destinato ad una sorte che non vuole, oppresso da una scelta obbligata, affezionato ai figli a tal punto da pregare Medea di lasciarglieli in custodia.
Giasone è, secondo un tema molto ricorrente nella letteratura latina, vittima del suo stesso destino, di un filo nero che si dipana a partire dai suoi antenati: loro, gli Argonauti, hanno osato violare le leggi della natura, varcando per la prima volta il mare, avvicinando terre che l’universo aveva voluto lontane, ed è giusto che paghino. Tutti gli Argonauti muoiono, ed un destino di sofferenza spetterà inevitabilmente anche a Giasone.
Una donna sola
Al di là delle interpretazioni che gli autori greci e latini hanno dato del mito di Medea, resta il fatto che, agli occhi moderni, forse l’attenzione dovrebbe essere posta su un altro aspetto: Medea, colpevole o giustificata, è essenzialmente una donna sola, abbandonata dall’unico uomo che abbia amato in vita. Il demone di Medea non è la furia assassina o il thumòs, è il suo essere donna, sola, straniera, barbara, lontana da casa in una terra di uomini che non la vogliono. Un messaggio ancora tutto attuale, quanto mai in questi giorni.
“Quid crimen dicis praeter amare meum? (Quale colpa mi imputi se non quella di averti amato?)”
Si limita forse solo a questo il grande male interiore di Medea.
Alessia Amante