Dopo essere emigrata molti anni prima negli Stati Uniti, tra l’agosto del 1949 e il marzo del 1950, la filosofa tedesca Hannah Arendt fece ritorno in Germania, suo paese d’origine, per conto della Commission on European Jewish Cultural Reconstruction. L’allieva di Heidegger e Jaspers raccolse poi le impressioni e le esperienze di questo viaggio in un saggio intitolato, non a caso, Ritorno in Germania e apparso nel 1959 sulle pagine della rivista Commentary.
Questo testo, forse tra i più intensi sul tema “Germania anno zero”, è il tentativo della scrittrice di superare la delusione e il rancore nei confronti della propria nazione dopo la tragica esperienza del nazismo, della guerra e della Shoah.
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Il Ritorno in Germania di Hannah Arendt
In meno di sei anni la Germania, commettendo crimini che nessuno avrebbe ritenuto possibili, ha distrutto la struttura morale del mondo occidentale, mentre i suoi conquistatori hanno ridotto in cenere le testimonianze visibili di più di mille anni di storia tedesca.
Dalle prime pagine del suo saggio, Hannah Arendt non nasconde le sue perplessità e i timori per le condizioni dei milioni di profughi tedeschi provenienti dai Balcani e dall’Est europeo che, con la fine del conflitto, si sono riversati in Germania e in Austria: all’immagine della distruzione postbellica, dunque, si va ad aggiungere quella più contemporanea della perdita della patria, dello sradicamento sociale e della privazione dei diritti politici dei tanti uomini dei territori orientali.
In questo nuovo contesto, la realtà dei campi di concentramento e di un paese completamente distrutto da un conflitto mondiale ha reso più doloroso ma anche più duraturo il ricordo della guerra e la paura che se ne possa scatenare un’altra. In particolare, ciò che spaventa è «l’incubo di una Germania fisicamente, politicamente e moralmente distrutta», un precedente molto pericoloso che, dopo la fine della I Guerra Mondiale, aveva favorito l’ascesa al potere di Hitler.
Il rifiuto della realtà
Ciò che, durante la sua permanenza in Germania, colpì duramente Hannah Arendt fu la reazione dei cittadini tedeschi di fronte ai tanti morti e alle rovine, «un rifiuto non del tutto consapevole di cedere al dolore oppure (…) espressione di una vera e propria incapacità di sentire».
Nel suo saggio, la filosofa tedesca osserva come siano ancora tanti coloro che poco si interessano della distruzione che li circonda, dei milioni di profughi nelle città in cerca di aiuto e di portare il lutto per i morti. Quest’apatia, questa mancanza di emozioni non sono altro che sintomi di un radicato e ostinato rifiuto di fare i conti con ciò che è realmente accaduto.
Un’efficace verifica secondo Hannah Arendt
Secondo la scrittrice, verificare questo atteggiamento è semplice, basta avviare una discussione con un tedesco di qualsiasi livello culturale. Nel momento in cui quest’ultimo si rende conto che sta parlando con un ebreo, dopo un iniziale imbarazzo, non avrà mai il coraggio (oppure l’interesse) di chiedere del destino dell’interlocutore e della sua famiglia, bensì seguirà «un profluvio di storie sulle sofferenze dei tedeschi (…) mettendole a confronto con quelle degli altri».
Una reazione egualmente evasiva dei tedeschi si nota anche alla vista delle città distrutte dai bombardamenti: per il tedesco medio, la devastazione che lo circonda non è da ricercare «nelle azioni del regime nazista, ma negli eventi che portarono alla cacciata di Adamo ed Eva dal Paradiso».
Schadenfreude in Germania
In Germania «l’abitudine di attribuire la colpa delle proprie disgrazie a forze che stanno al di fuori», comune anche a Inghilterra, Francia, Russia e Stati Uniti che controllavano le quattro zone di occupazione dopo gli accordi di Potsdam del 1945, è più marcata poiché si tende a dare la colpa di tutto alle forze alleate. A tutto ciò, scrive Hannah Arendt, si aggiunge quel sentimento di Schadenfreude, ossia di gioia maligna per le altrui disgrazie, percepibile, ad esempio, nei discorsi oppure nei titoli di giornale.
Gli stratagemmi per aggirare la realtà
I tedeschi, dunque, hanno sviluppato una serie di stratagemmi ed espedienti per poter aggirare la tragica realtà del nazismo e dell’Olocausto. Molti, infatti, ritengono non solo che l’attuazione del progetto dei campi di concentramento sia stata, in fondo, qualcosa di cui anche altri popoli potrebbero essere capaci in futuro, ma anche come l’occupazione del territorio tedesco da parte degli alleati faccia parte di un efficace piano di vendetta.
Quest’ultimo elemento «serve come tranquillizzante argomento per provare come tutti gli uomini sono in egual misura colpevoli». Tale sentimento di Schadenfreunde, quindi, è sempre vivo nei tedeschi, i quali continuano a nutrire la speranza che si scateni presto un’altra guerra. Questo desiderio è «un ulteriore accorgimento per fuggire dalla realtà: al cospetto di una distruzione indistinta e definitiva, la situazione tedesca perderebbe infatti la sua forza dirompente».
Pia C. Lombardi
Leggi anche: Arendt e la propaganda totalitaria del Novecento
Bibliografia: H. Arendt, Ritorno in Germania, Roma, Donzelli Editore, 1996.