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La “passione” di Tiresia
Nuovo giorno su Tellure ed ennesimo litigio con urla e strepitii sull’Olimpo tra Zeus ed Hera per colpa dell’ennesima scappatella del marito. Il dio, frustrato per la quotidiana scenata di gelosia della sorella-sposa, giustificò le sue infatuazioni sostenendo che la sua emotività assai volubile è da sempre legata al maggior piacere che le donne provano nell’amplesso sessuale, quindi semplicemente accontenta i loro piaceri carnali.
Hera, dea protettrice del genere femminile, urlando sostenne la tesi opposta al marito: gli uomini provano maggiore piacere nel rapporto sessuale per via della loro immaginazione sozza nel raffigurare sempre una donna senza veli, quindi un desiderio morboso di indispensabile ed insaziabile uso dell’organo maschile.
Il confronto su quell’argomento andò avanti per ore sin quando Zeus sfinito delegò la sentenza di quella diatriba ad una persona che gustò il piacere carnale sia nell’uno che nell’altro sesso, ovvero Tiresia di Tebe. Poco più che ventenne, l’uomo si ritrovò sul monte Citerone in battuta di caccia e vide dietro un cespuglio due serpenti in amore. Con un colpo del suo bastone, l’uomo uccise la femmina di serpente ed inspiegabilmente mutò sesso dandosi alla prostituzione. Sette anni dopo, per caso, sempre sul Citerone, rivide altri due serpenti accoppiarsi; stanco della vita da squillo, pensò di uccidere stavolta il serpente maschio ed ecco che riprese le spoglie originarie.
Poco dopo Tiresia fu contattato da Zeus per risolvere la diatriba di cui sopra ed egli affermò con convinzione e senza alcun indugio che:
“Se in dieci parti dividiamo il piacere d’amore, tre volte tre vanno alla donna ed una sola all’uomo”.
Mentre Zeus si beò del suo “successo”, Hera offesa lo accecò. Tiresia così pregò Zeus per ridargli la vista, però il dio, non potendo interferire col volere di altre divinità, gli concesse il dono della veggenza. Divenuto così indovino, il giovane fece il suo primo vaticinio:
“Padre Zeus, o dovevi darmi vita più breve o farmi sapere soltanto quanto sanno i comuni mortali. Come sono ora, non è per me il minimo piacere vivere per sette generazioni!”
Le prime profezie, destini segnati: Narciso e Penteo
In breve tempo, Tiresia divenne famosissimo in tutta la Beozia per la veridicità nelle sue predizioni, il primo importante responso sull’attendibilità delle informazioni del vate l’ebbe la naiade Liriope a proposito di suo figlio Narciso. Temendo per il futuro del bambino, la donna consultò Tiresia il quale disse che il piccolo sarebbe arrivato in tarda età solo se non avesse conosciuto se stesso.
Il giorno dopo il suo sedicesimo compleanno, Narciso, mentre si trovava in una battuta di caccia, conobbe una bellissima ninfa di nome Eco. Costei era stata maledetta da Hera per averla intrattenuta con argomenti futili mentre il marito se la spassava con molte ninfe.
“Avrai scarsa possibilità di usare questa lingua con la quale sono stata ingannata e breve assai sarà l’uso che farai della tua voce” ed Eco fu costretta a ripetere sempre le parole finali del suo interlocutore.
Eco s’innamorò a prima vista di Narciso, così lo seguì per un lungo percorso con la vana speranza di rivolgergli la parola; improvvisamente il giovane s’accorse della presenza di qualcuno alle sue spalle, grido: “Chi mai è qui?” ed Eco ripetette le ultime due parole.
“Perché mi fuggi? Incontriamoci qui” disse Narciso e poco dopo si ritrovò con il collo avventato dalle mani di Eco.
“Tieni lontane le mani, non abbracciarmi! Che possa morire prima di concedermi a te!” urlò Narciso scappando via mentre Eco ritornò tra i rovi per piangere disperata per giorni e giorni fin quando mutò in suono nel vento.
Narciso era di carattere terribile e respingeva tutti i suoi spasimanti donne ed uomini, l’ultimo (Aminia ndr) gli lanciò questa maledizione: “Che possa innamorarsi allo stesso modo costui, ma non possa godere dell’oggetto del suo amore”.
Narciso, nel suo peregrinare, osservò per caso una fonte limpida ed invitante, andò per dissetarsi, vide la sua immagine riflessa nello specchio d’acqua e subito s’innamorò perdutamente del suo aspetto. Nel giro di breve tempo, morì di crepacuore.
Il vaticinio di Tiresia così si concretizzò e tutti riconobbero la sua abilità nelle arti divinatorie tranne Penteo, che addirittura lo derise ed egli replicò: “Come saresti felice se anche tu divenissi priva di questa luce, per non vedere i sacri riti di Bacco! … e se tu non l’avrai ritenuto degno dell’onore dei templi, sarai fatto a pezzi e le tue membra saranno sparpagliate in mille posti e con il tuo sangue macchierai le selve e tua madre e le tue sorelle…” Penteo, irato per quelle affermazioni, lo fece imprigionare, ma il disegno degli dei già s’era messo in moto; il giorno successivo Bacco (Dioniso) si presentò alla porte della reggia di Tebe reclamando il suo posto nella casata (per il resto cfr. Agave, Penteo e le Baccanti: l’ebbrezza vien bevendo).
Le prime generazioni tebane sino ad Edipo
Dopo la morte di Penteo, il trono passò a Polidoro con Tiresia a suo fianco come consigliere speciale. La figura del vate risultò essere di fondamentale importanza per la politica tebana per tutti quanti i re che si susseguirono: da Nitteo e Lico, sino a Laio, poi arrivò Edipo, ma ecco che, improvvisamente, a Tebe ci fu una terribile pestilenza che stava decimando la popolazione, così il re inviò Creonte a Delfi per consultare l’oracolo. Ritornato, il vecchio consigliere disse ad Edipo che l’assassinio di Laio non era ancora stato vendicato, così il sovrano si rivolse a Tiresia per un consulto, ma nacque un battibecco:
Sebben sei re, ben giusto è ch’io risponda come tu mi parlasti: io n’ho diritto:
ché non tuo servo, ma d’Apollo io sono, né mio patrono sarà mai Creonte.
E poi che tu vituperi la mia cecità, parlerò. Tu aperti hai gli occhi,
eppur non vedi in che sciagure sei, né dove abiti, né chi sono quelli
che vivono con te. Dimmi: sai forse da chi sei nato? Dei tuoi cari, o vivi
sopra la terra, o già sotterra, tu sei l’inimico, e non lo sai. Da questa
terra, col pie’ terribile, una duplice maledizione via ti spingerà:
del padre e della madre. E tu, che vedi ora la luce, buio sol vedrai.
Qual terra non sarà porto ai tuoi ululi, qual Citerone non li echeggerà,
quando saprai le nozze a cui ti spinse prospero vento in questa casa, a cui
approdar non dovevi! E la congerie non sai degli altri mali, onde tu sei
reso pari a te stesso, e ai figli tuoi. Ed ora su’, Creonte e il labbro mio
brutta di fango! Ché sterminio più turpe del tuo, niun patirà degli uomini.
Detto questo, Edipo andò da Creonte dove ci fu un’altra discussione molto accesa sino all’intervento di Giocasta che lo assicurò dicendo che molte volte gli indovini sbagliano previsioni in quanto Laio, il suo vecchio marito, doveva morire per mano di suo figlio e questo non è avvenuto perché è stato ucciso da dei briganti. Ad Edipo gli venne un dubbio in quanto egli stesso in quella strada, uccise in un uomo, quindi raccontò la sua versione alla moglie ed in più disse che è dovuto scappare da Corinto perché gli fu riferito che avrebbe ucciso il padre.
In quell’istante, arrivò un supplice da Corinto che gli informava della morte del padre; l’uomo in questione era il pastore che raccolse il piccolo Edipo dal servo del re Laio e che a sua volta lo affidò al defunto re corinzio. Edipo, preso dallo spavento, volle chiamare il servitore per averne la conferma, vani furono gli sforzi di Giocasta nel dissuaderlo da tale indagine avendo capito il tragico errore fatto: Edipo era suo figlio, nonché consorte. Giocasta non resse alla vergogna e s’impiccò nella sua stanza, Edipo, avendo oramai la certezza di essere lui la causa delle disgrazie dei tebani, raggiunse la stanza della madre, slacciò la fibbia della tunica e s’accecò. Dopo il gesto, Edipo supplicò Creonte che assunse la reggenza del trono, di esiliarlo.
(La storia di Tiresia continua col prossimo articolo).
Marco Parisi
Bibliografia:
- Ovidio, Le metamorfosi, III libro, UTET
- Karoly Kerenyi, Gli dei e gli eroi della Grecia, Il Saggiatore
- Robert Graves, I miti greci, Longanesi e C.
- Edipo Re, Sofocle