Si può riassumere la tesi proposta da Judith Butler, statunitense per nascita, foucaultiana per metodo, sulla performatività del corpo in poche righe di citazione?
Uno dei miei propositi consiste proprio nel […] mostrare che il corpo, o meglio, gli atti corporei concertati – Il radunarsi, la gestualità, lo stare in piedi, tutto ciò che concorre alla costituzione dell’assemblea e che non può essere facilmente assimilato al linguaggio verbale – possono assurgere a principi di libertà e di uguaglianza.
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Foucault neoliberista
Piuttosto esiguo il numero di critici del lavoro di Michel Foucault: se egli augura difatti ai secoli di poter finalmente dirsi “deleuziani”, si può senza remore affermare che essi siano diventati “foucaultiani”. Esigui, sì, ma non inesistenti: è del 2014 un testo di Daniel Zemora per cui l’opera del filosofo francese non sarebbe altro che una stanca difesa dell’ideologia neoliberista.
Se infatti il quadro che trova protagonisti nient’altro che due soggetti i quali naso contro naso si occhieggiano biechi, uno dominante, l’altro dominato, è frammentato dentro una molteplicità di micro-poteri che ovunque affannano, soffocano, mordicchiano, non c’è forse il rischio di lasciar correre le nefandezze di una parte dei governanti a danno dei governati? Se gli occhi del potere sono ovunque, cui bono difendersi da uno e lasciarne correre un’altra dozzina? A tale subdoli interrogativi (che in verità l’archeologia di Foucault non si pone, in quanto ben lontana dal farsi etica normativa) sembra rispondere Judith Butler.
Judith Butler: microfisica corporale del potere
Si potrebbe scrivere che il divenire dei secoli ha con ogni mezzo cercato l’abbattimento delle fondamenta che sostenevano le maiuscole: esse, come le entità descritte, si sono fatte più piccine. Insieme con il Potere anche l’Uomo è dunque disintegrato o almeno rimpicciolito. Degli uomini si può dire che essi siano un corpo: ecco, l’apparizione, profilo nell’immaginario del lettore. Il corpo si manifesta in ogni luogo, prima del soggetto e dell’individuo; esso è un’entità organica che occupa uno spazio nell’ambiente del mondo.
Appartiene, tuttavia, a un’esistenza umana, a qualcuno che lo abbia in dote e per mezzo di cui gli è dato di apparire pubblicamente. V’è allora una presenza identitaria che l’individuo è costretto a riservare al corpo: esso ha la forza di denudare chi lo possegga, di presentarlo in quella “nuda vita” di cui Giorgio Agamben tanto precisamente scrive nell’Homo Sacer. Di qui l’analisi butleriana, osservazione fenomenologica di alcuni agglomerati corporei, per forza di cose urbani, “di strada”, per utilizzare la terminologia che lei stessa propone nel volume L’Alleanza dei corpi, tradotto da Federico Zappino per Nottetempo.
È il corpo che parla
Numerose le indagini cui si apre il saggio, insieme riducibili a un solo, unico interrogativo che sarà descritto attraverso la formula piuttosto logora di una citazione letteraria a un’opera di Carver: “di cosa parliamo quando parliamo di corpo?”(1). È una prospettiva di sociologia del corpo che l’autrice solletica, osservando le relazioni tra quelle singolari particelle che paiono essere i corpi degli uomini. Esse si agglomerano in pericolosi coacervi, costituiscono focolai di resistenza a chiunque desideri relegarle al ruolo della mediocrità dispensabile.
Quello del corpo non risulta dunque essere un vuoto spazio d’esposizione o, ancora, d’apparizione, per cui esso si manifesterebbe all’altro in ognuna delle sue parti, è invece uno spazio dell’azione performativa dove l’agire sia costituito tutt’intorno a quell’apparizione corporale.
Il desiderio di riconoscimento
Il corpo abita, a parere di Judith Butler, la dimora dell’incontro: ecco che ovunque un corpo ne incontra un altro, lo riconosce, gli permette affermazione. Da brava hegeliana, l’autrice non può non esplorare quella citazione di Jean Hyppolite per cui in Hegel il desiderio (dèsir) sarebbe tale in virtù di una tensione antropocentrica verso il “riconoscimento”.
Di qui l’auto-affermazione identitaria: “il mio corpo”, sembra raccontare l’individuo, “non è mai solo, occupa di continuo il territorio della presenza che si progetta nell’azione”. Rifiutare l’azione, dunque? No, pluralizzarla, accorgersi che il solo varcare la soglia di casa e farsi carico degli elementi sociali consentono una manifestazione nell’ambiente sociale. Camminare, vestirsi, osservare: ogni elemento agisce per mezzo del corpo al fine di consentire al soggetto una voce dentro la conversazione del mondo.
Non pare un caso, dunque, che una delle poche citazioni cui il testo butleriano si abbandona sia proprio The Scandal of Speaking bodies, “Lo scandalo dei corpi che parlano”, a opera di Shoshanna Felman. La presenza identitaria del corpo appare come un focolaio di resistenza giammai isolato, in un’estasi continua che abbracci un soggetto, per così dire, obliquo, senza patria, un corpo che abbia come casa nient’altro che la prossimità di un altro corpo.
La manifestazione immobile
Esso appare allora in continuo movimento, sempre in tensione, non solo quando marcia, o cammina, ma pure, anzi soprattutto, quando immobile rivendica la propria presenza, giacché quello della quiete è il suo stato più comune.
Se, come scrive Walter Benjamin in Per la critica della violenza, quest’ultima si ritrova soltanto “nel regno dei mezzi”, mai “in quello dei fini”, si può allora scrivere che il corpo butleriano è presentato nella propria vulnerabilità di mezzo attivo. Il fine? Un’irriducibile opposizione alla dispensabilità cui alcune parti politiche desiderano relegarlo, arbitrariamente rimuovendogli gli arti considerati incancreniti.
Integro risulta tuttavia quel corpo poiché possiede risorse continue e indistruttibili. Lo sguardo di Judith Butler permette alla politica “della strada” (gli agglomerati sociali che si riuniscono in piazza edificando un’alleanza particellare quale mezzo per una civiltà negata) di estendere le frontiere cui a volte la storia, pur inconsciamente, sembra averla reclusa. “Dissento da chi afferma che l’esercizio dei diritti avvenga oggi il più delle volte a spese dei corpi per strada”, scrive l’autrice riferendosi a quanti osservano nelle “tecnologie virtuali” una “disincarnazione della sfera pubblica”.
“È importante […] sottolineare che ogni mezzo di comunicazione è innanzitutto “tenuto in mano”, “che gli smartphone sono “tenuti in alto”, producendo in questo modo una sorta di controsorveglianza delle azioni militari e di polizia”.
Cosa può, allora, fare un corpo? Manifestarsi per manifestare.
Antonio Iannone
(1) La raccolta di racconti citata è Di cosa parliamo quando parliamo d’amore?, edita in Italia da Einaudi, a cura di R. Duranti.
Bibliografia
G. Agamben, Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, Einaudi.
W. Benjamin, Angelus Novus, a c. di R. Solmi, Einaudi.
J. Butler, L’alleanza dei corpi, tr. it. F. Zampino, Nottetempo.