Le tragedie pervenuteci dall’antichità sono davvero poche. Conosciamo, infatti, solo tre nomi di tragici greci: Eschilo, Sofocle e Euripide. È sicuro che ve ne fossero molti altri ad Atene e forse fuori d’Atene, e le opere dei tre massimi tragici erano rappresentate anche nel mondo coloniale, come per esempio a Siracusa. Non solo, dunque, la nostra conoscenza della tragedia greca è ridotta a tre nomi, ma di ognuno di essi sono leggibili soltanto pochissime tragedie: sette per ciascuno, con un’eccezione fortuita per Euripide. Da dove inizia questa lunga e inesorabile “scrematura” delle tragedie greche?
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Atene, prima e dopo la morte dei tragici
Partiamo dall’inizio. È ormai quasi accertato che, già nel V sec. a.C., coloro che intendevano mettere in scena una tragedia alle “Grandi Dionisie” (il festival teatrale di Atene) erano obbligati a lasciarne una copia nel Metroon della città. È probabile, però, che immediatamente dopo la morte dei poeti la tradizione delle tragedie iniziò già a vacillare. Per la fama che essi conquistarono in tutta la Grecia, non furono poche le “compagnie teatrali” che, a partire dall’inizio del IV sec., cominciarono a mettere in scena nelle varie poleis i drammi dei tre tragici maggiori.
Come sempre succede, naturalmente, tali rappresentazioni finirono per corrompere il testo, dal momento che gli attori si sentirono spesso liberi di modificare le battute o addirittura il finale delle tragedie per collegarle, ad esempio, ad altre (famoso è il caso dei Sette contro Tebe di Eschilo, il cui finale fu modificato per creare un continuo con l’Antigone di Sofocle). Un amministratore di Atene vissuto nel IV sec. a.C., Licurgo, decise così di mettere fine a tutto ciò proponendo di redigere per la polis delle copie ufficiali delle tragedie greche.
Da Atene ad Alessandria
Il centro della cultura, però, si stava ormai spostando verso un altro luogo, molto lontano da Atene: Alessandria. Alessandria fu ben presto fornita di una enorme Biblioteca e di un Museo, un “luogo delle Muse” in cui i nascenti filologi potevano lavorare sui testi greci. Questi due luoghi furono posti dai sovrani tolemaici vicino al porto. Come mai?
Tolomeo II, detto Filadelfo, prestò molta cura alla Biblioteca, con la volontà di aumentare i rotoli letterari contenuti in essa. Propose, così, “l’editto delle navi”: chiese a tutti i sovrani e alle città della Grecia di inviare ad Alessandria dei libri, favore che diventava obbligo nel momento in cui questa città voleva entrare in rapporti commerciali con Alessandria. In quel caso, infatti, l’attracco nel porto era vietato a meno che la nave non portasse con sé dei rotoli. Tali rotoli erano affidati ai filologi che pazientemente li copiavano e, furbamente, tenevano gli originali per restituire le copie!
Tutto ciò, chiaramente, toccò anche Atene: numerosissimi intellettuali ateniesi si recarono ad Alessandria (Demetrio Falereo, amministratore ateniese, fondò la Biblioteca!) e, inevitabilmente, portarono con sé le copie originali dei tragici greci. Queste, secondo la prassi, furono copiate, e gli alessandrini tennero per sé gli originali.
I pinakes, cataloghi della Biblioteca
I più grandi filologi alessandrini, così, ebbero modo di leggere, studiare ed eventualmente correggere il testo greco, che più o meno doveva ammontare a 90 tragedie per Eschilo, 130 per Sofocle e 90 per Euripide. I filologi eliminarono le tragedie da loro ritenute spurie e riposero i rotoli dei drammi nella grande Biblioteca di Alessandria. Una prima “scrematura” delle tragedie avvenne qui. Anche se già ad Atene i contemporanei decretarono Eschilo, Sofocle ed Euripide come i più grandi tragediografi, condannando inevitabilmente alla scomparsa tutti gli altri, la polis greca non aveva una grande biblioteca che necessitasse di un catalogo. Questa necessità, invece, si presentò ad Alessandria: tra gli enormi scaffali della Biblioteca furono riposte delle tavolette, dei pinakes, che indicavano quali autori erano presenti in quello scaffale. Chiaramente non potevano essere elencati tutti: così furono selezionati i più importanti, quelli che sopravviveranno fino a noi.
La filologia bizantina
Dopo il crollo dell’Impero Romano capitale del mondo politico e culturale divenne Bisanzio. Rispetto ai secoli precedenti, il greco non era più la lingua “indigena”, locale, ma doveva essere studiato. Gli eruditi, così, dovettero affrontare un duro compito: ricopiare tutta la letteratura greca, o meglio, quella che interessava, dai codici ai manoscritti. La copia dei testi fu molto lunga e faticosa: non dobbiamo avere l’idea di tanti monaci che, rinchiusi nei monasteri, non facevano altro che copiare testi. La letteratura era copiata in modo “casuale”, in base a ciò che serviva o a ciò che era richiesto da un committente.
L’unico “luogo” in cui essa era sempre necessaria era la scuola. Era chiaramente impossibile insegnare un totale di 300 tragedie ai ragazzi, per questo si pensò ad una selezione dei testi più importanti. Per tutti e tre i tragici si optò per un numero di sette drammi. Tale scelta ha condizionato totalmente la trasmissione dei testi, perché questi sono esattamente i sette drammi giunti fino a noi sia per Eschilo che per Sofocle. E per Euripide, come mai ne abbiamo diciotto? È una pura casualità: anche per Euripide erano state scelte sette tragedie, ma il ritrovamento di un manoscritto ne ha restituite altre.
Col tempo si passò addirittura ad una successiva selezione: per tutti e tre i tragediografi ateniesi si scelsero sole tre tragedie. Questo ulteriore intervento, per fortuna, non ha influito sulla tradizione come quello precedente, il più forte, dei “sette drammi”.
Manoscritti e papiri
Il percorso delle tragedie greche, dunque, è stato lungo e tortuoso. Passando da una “capitale” all’altra, era inevitabile che la letteratura pagana si perdesse poco a poco. I manoscritti bizantini, però, hanno avuto il merito di salvare i capisaldi della cultura greca, riconoscendone l’importanza dal punto di vista etico e linguistico. Molto può essere ancora scoperto grazie all’inesauribile fonte dei papiri, resti di quegli stessi testi che i greci d’Egitto leggevano, tesoro che conserva ancora tra un foglio e l’altro la preziosa eredità della letteratura greca.
Alessia Amante