Satira in epoca augustea: la reintepretazione di Orazio

Satura tota nostra est, “la satira è un genere tutto nostro”: così Quintiliano nella sua Institutio Oratoria definisce il genere satirico, differenziandolo da tutti gli altri nel campo della letteratura latina. Quintiliano, maestro di eloquenza e grande esperto della “classificazione” dei generi letterari, non poté non sottolineare il divario tra l’eredità letteraria greca (teatro, epica, lirica, ecc.) e la satira: quest’ultima era genere inventato dai Romani e non fu conosciuto dai Greci.

L’etimologia del termine

L’origine del nome è piuttosto discusso. Il termine, per i dotti latini, deriverebbe dal greco satyros, “satiro” appunto, e indicherebbe il carattere “smaliziato” e farsesco che la satira, almeno agli inizi, conobbe. Molto più probabile, tuttavia, è che il termine sia di origine latina, e richiami la satura lanx, un piatto misto e variegato: l’etimologia rispecchierebbe la varietà di contenuti tipica della satira.

La satira tra epoca arcaica e augustea

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Lucilio

A quando le origini del genere? Il primo vero autore di satire latine di cui noi abbiamo testi è Lucilio (che scrisse ben trenta libri!), ma già Ennio produsse genere satirico e, dai pochi frammenti pervenuti, sembra che il padre della letteratura latina avesse già stabilito, alle sue origini, le regole della satira, cioè varietà, autobiografia e verve polemica.

Le origini della satira, dunque, risalgono alla nascita stessa della letteratura latina e fu continuata anche in epoca augustea, sotto però una nuova veste. Il merito di tale reinterpretazione è del Poeta di Augusto: Orazio.

Le Satire di Orazio, tra passato e novità

Orazio scrisse due libri di Satire: il primo, di stampo “augusteo”, dedicato a Mecenate e concluso del 35 o 33, comprendente dieci satire; il secondo apparso con gli Epodi nel 30, comprendente otto satire, di cui l’ultima stranamente lunghissima.

Il poeta, nelle prime satire programmatiche, ricapitola la storia del genere e pone come inventore di esso Lucilio: nonostante, come detto, Ennio avesse praticato il genere prima di lui, era stato Lucilio a dettare le regole della satira, che Orazio, almeno in teoria, si sentiva di rispettare. Le differenze con l’inventor, tuttavia, non erano poche: innanzitutto Orazio, da buon poeta augusteo, cercò lo stesso delle origini greche alla satira, individuandole nell’aggressività tipica della commedia attica di V secolo; inoltre, pensò di dare nuova veste al genere, eliminando il lato troppo aggressivo e sostituendolo con una morale filosofica.

La veste filosofica: tra insegnamento e autarkeia

È risaputo che Orazio conoscesse bene la filosofia, che integrò spesso nelle sue opere come “sottofondo” morale. Per questo motivo, mai quanto nelle Satire, genere in cui il poeta non aveva “regole” e poteva parlare liberamente, Orazio decise di ergersi più che come detrattore, come maestro di vita, indicando la giusta via sulla base degli sbagli suoi e degli amici.

Orazio, infatti, non è “filosofo” aggressivo, ma magister paziente e buono, che riconosce anche i propri errori e sa farne autoironia. La morale che il poeta predilige è, chiaramente, quella epicurea, privata, tuttavia, dell’intento di “rifondare il mondo” e rivestita, invece, di una certa indifferenza stoica.

Quel che Orazio intende fare nelle Satire, dunque, non è cambiare le cose, ma indicare solo gli errori commessi. Poi, soltanto chi è dotato di una propria intelligenza può comprendere l’insegnamento e, nel caso, cambiare se stesso: la satira di Orazio, dunque, non è un genere per tutti, ma per pochi intellettuali, quelli della cerchia di Mecenate.

Gli esempi da ricercare: la vita quotidiana

L’esempio è quello del mondo quotidiano: Orazio guarda ai numerosi accidenti della vita, con protagonisti cittadini, popolani, cortigiane, che vivono una vita “comune”. Non bisogna puntare ai grandi esempi e agli insegnamenti delle scuole filosofiche, ma basta la lezione di ogni giorno, come Orazio apprese dal padre.

Il poeta, tuttavia, resta pur sempre un figlio di un liberto, e non può permettersi di criticare con i nuovi amici letterati il mondo basso da cui proviene: ecco perché, anche laddove lo spirito satirico è pronto a colpire, Orazio non ricorre mai alla pura aggressività, ma guarda con occhio paziente e anche un po’ nostalgico l’universo caotico a cui un tempo apparteneva.

La novità del secondo libro

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Orazio

Il secondo libro di Satire, tuttavia, presenta un meccanismo totalmente diverso da quello impiegato nel primo: allo schema modello negativo di cui burlarsi -> lezione da apprendere, si sostituisce uno stile molto più dialogico, in cui il poeta, lentamente, scompare.

Le riflessioni presentate nei componimenti non sono più affidate ad Orazio poeta, ma ad una seconda voce, un interlocutore che, rispetto all’autore, è meno capace di portare avanti discorsi coerenti.

Le contraddizioni, infatti, pullulano nelle otto satire, ma quest’effetto è ricercato: il mondo è un caos tale da rendere impossibile la definizione di leggi certe. A tale confusione, dunque, il poeta non può permettersi di esporsi, pena la perdita della propria tranquillità interiore; ritiratosi nel suo “angolino”, Orazio lascia la parola ai personaggi, che espongono i propri vizi da soli, senza l’aiuto di un magister. Di fronte a queste storture, insomma, non c’è bisogno di un qualcuno che denunci, in quanto esse si denunciano da sole.

Dalle Satire alle Odi

È dunque chiaro che, alla fine della produzione delle Satire, Orazio avesse già raggiunto l’ultimo stadio del suo pensiero, che lo vede come poeta isolato e ancora più consapevole che nessun maestro può cambiare il mondo, ma può solo cambiare se stesso. Ad una salvezza altrui impossibile da raggiungere, Orazio antepone così la propria salvezza morale, con un “egoismo” filosofico che già anticipa e prelude al capolavoro delle Odi.

Alessia Amante