Augusto non fu soltanto il primo princeps di Roma, ma anche l’uomo politico che maggiormente si servì della cultura come arma di potere e di controllo. Il primo imperatore, insomma, per giustificare e trasmettere ai posteri la sua versione dei fatti sull’avvento del principato, non solo portò dalla sua “parte” – con la mediazione di Mecenate – i più grandi intellettuali del tempo, ma censurò tutto ciò che collideva con la nuova ideologia. In questo articolo vi illustreremo la censura della letteratura durante il primo principato di Augusto.
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Asinio Pollione: il passato che si arrende al presente
Il più grande “nemico” sul piano ideologico e l’intellettuale che più si sottraeva al nuovo ordine e alle nuove regole imposte da Augusto fu senza alcun dubbio Asinio Pollione.
Asinio Pollione appartiene alla “prima generazione” degli intellettuali augustei, cioè coloro che vissero in prima persona l’orrore della guerra civile. Egli era addirittura più anziano di Ottaviano, perché nato nel 76, e aveva vissuto appieno l’ultima stagione della res publica, ricoprendo il consolato nel 40 a.C.
Nonostante le numerose dichiarazioni repubblicane, Asinio celava un’ambiguità comune ad Ottaviano: se avesse avuto la meglio nelle guerre civili, probabilmente sarebbe stato lui il princeps. Non a caso nelle Bucoliche (la IV e l’VIII) Virgilio celebra Pollione come figura salvifica, grazie alla cui gloria Roma godrà di una nuova età dell’oro.
Quando, tuttavia, l’esito della guerra civile iniziò a tendere irrimediabilmente verso una vittoria di Ottaviano, Asinio abbandonò le sue belle parole per ripiegare su una soluzione piuttosto deludente: “sarò preda del vincitore”, pare abbia detto.
Ma non andò del tutto così: accettato il nuovo ordine politico del principato di Augusto, Asinio abbandonò sì le armi belliche, ma non quelle letterarie. Isolato da Augusto e Mecenate, Pollione decise comunque di ritagliarsi un proprio spazio per scrivere la sua versione dei fatti in un’opera storica, chiaramente anti-augustea.
L’ammonizione di Orazio
Augusto non intervenne personalmente (come invece fece per Labieno, di cui ordinò il rogo dei libri!), ma incaricò il Poeta per eccellenza, Orazio, di avvisare Pollione che stava compiendo un passo falso. Quando, così, Orazio si accinse a scrivere il primo canto del secondo libro dei Carmina, si rivolse a Pollione con tali parole:
“La discordia civile, sin dal consolato
di Metello, e le cause, gli errori, le fasi
della guerra e il gioco di fortuna,
le alleanze strategiche dei triumviri,
e le armi intrise di sangue non ancora espiato,
questo vuoi narrare, avviandoti su brace
che insidiosa cova sotto la cenere,
e come ai dadi è impresa colma di rischio.”
(Carmina II 1)
Il messaggio è chiaro: trattare un evento così recente e delicato come le guerre civili è pericoloso, e potrebbe essere sgradito al vincitore. Non è un caso che le Storie di Pollione non siano giunte fino a noi.
Virgilio: non solo Eneide
Continuando per età, il secondo intellettuale più anziano era Virgilio. Ebbene sì, anche l’autore dell’Eneide (“il poema per celebrare Augusto”) fu soggetto a censura, almeno per le prime due opere.
Abbiamo già ricordato le due egloghe destinate a Pollione: piuttosto imbarazzanti dopo la vittoria di Ottaviano. Per questo motivo Virgilio le spostò “più in là” nella raccolta, lasciando il primo posto alla famosa “Tityre tu patulae…”, che celebra ed esalta Augusto, definito già deus.
Ma non finisce qui: evidentemente Virgilio era tanto bravo in poesia quanto poco lungimirante in politica. Oltre a Pollione, Virgilio contò molto sulla figura di Cornelio Gallo, cavaliere e primo prefetto della provincia d’Egitto. Amico di Augusto, a lui Virgilio dedicò il finale del quarto libro delle Georgiche.
Gallo, tuttavia, divenne ben presto sgradito ad Augusto: in Egitto, a quanto sappiamo, accumulò troppo potere, quasi fingendo che la Repubblica fosse ancora in vita. Per questo motivo, Augusto ruppe i rapporti con lui, costringendolo al suicidio nel 26 a.C. e applicando contro di lui la damnatio memoriae: per le Bucoliche, già pubblicate, non c’era più nulla da fare e la presenza di Gallo vi rimase, ma il finale delle Georgiche fu sostituito dalla favola di Orfeo per ordine di Augusto.
Orazio: le “lettere” con Augusto
A Virgilio, per età, segue Orazio. Per Orazio, la questione è ancora più delicata: egli, infatti, aveva commesso un terribile (in prospettiva) errore in gioventù, combattendo a Filippi, ma dalla parte dei cesaricidi. Dopo la vittoria di Ottaviano, dunque, Orazio dovette “rimettersi in carreggiata”, e vi tentò divenendo amico di Mecenate e dunque intellettuale alla corte di Augusto.
Ritenuto da tutti la voce poetica del princeps (per lui, infatti, compose il Carmen Saeculare), anche Orazio ebbe i suoi screzi letterari con Augusto, e non soltanto qualche parolina (come quel “strategico” in riferimento al triumvirato nei versi poco fa citati) scappata qui e lì. Grazie alle testimonianze di Svetonio (a cui Augusto proprio non andava a genio), sappiamo di uno scambio epistolare tra i due, piuttosto particolare.
Orazio, infatti, aveva composto un’opera, le Epistulae, che si aprivano e si chiudevano con la lode a Mecenate, il braccio destro culturale di Augusto. Egli credeva di essersela cavata così, ma evidentemente si sbagliava: Augusto scrisse ad Orazio di essere in collera perché non conversava con lui.
Il poeta, così, dovette “riaprire” l’opera, scrivendo un secondo libro di Epistulae che, guarda caso, inizia con una excusatio: Orazio non aveva dedicato alcun componimento del primo libro ad Augusto perché non voleva sottrarre tempo coi suoi versi a lui che era così impegnato nelle guerre esterne e nella ricomposizione dell’ordine interno.
Augusto, pare, non fu soddisfatto: fece sapere che l’Epistula gli era parsa troppo corta.
Livio: davvero storico augusteo?
Segue Livio, lo storico per eccellenza del’epoca del principato di Augusto. Nonostante all’apparenza l’opera liviana possa sembrare una sorta di Eneide in prosa, in quanto risale ugualmente al periodo mitico di Roma per celebrare l’avvento di Augusto, la stesura effettiva dell’Ab urbe condita non seguì propriamente i piani del princeps.
Le letture che, infatti, Livio concedeva ad Augusto durante la stesura dell’opera, rivelarono punti di vista piuttosto pericolosi e sgraditi all’imperatore. Per la prima parte delle storie, non vi fu alcun problema; il tutto divenne più complicato quando Livio iniziò ad avvicinarsi al periodo delle due guerre civili, quella di Cesare e poi quella di Ottaviano. Tramite Tacito, sappiamo che Livio rivelò nella scrittura una tendenza repubblicana, che spinse Augusto ad appellarlo (amichevolmente?) “Pompeianus”.
Queste divergenze, tuttavia, divennero sempre più imbarazzanti e insostenibili durante la stesura degli eventi della seconda guerra civile: pare che Livio quasi celebrasse Bruto e Cassio, definendoli veri uomini romani. Fu, probabilmente, per la conseguente rottura col princeps che Livio decise di smettere di scrivere, almeno fino alla morte di Augusto. Solo dopo di essa, dicono i manoscritti, Livio pubblicò il libro centoventunesimo.
Ovidio, la vittima dell’esilio
Arriviamo ad Ovidio, il più giovane e rivoluzionario tra i poeti augustei. Ovidio nacque infatti solo nel 43 a.C., l’anno della morte dei due consoli, e non visse nulla dell’orrore delle guerre civili. La sua esperienza di vita, dunque, divergeva totalmente da quella di un Virgilio che, vittima della confisca di terre, non poteva non celebrare Augusto per aver concesso la pace a chi di guerra era ormai stanco.
Mettiamoci anche il carattere, Ovidio era il poeta che più scivolava al di fuori dell’ideologia augustea. Autore dell’Ars Amatoria in tempi di leggi morali, interprete nelle Metamorfosi di un Augusto piuttosto imbarazzante, coinvolto nell’ambiente antoniano o forse in qualche scandalo di corte, Ovidio fu colui che più subì le ire del princeps, finendo relegato a Tomi, dove morì senza fare più ritorno a Roma.
Dopo la morte di Augusto
Il clima di paura, pare, non si spense nemmeno con la morte di Augusto: dopo il 14 d.C. cominciarono di nuovo a circolare versioni “alternative” dei fatti, ma furono prontamente represse. Ad esempio, Claudio, nipote di Augusto e futuro imperatore, durante la sua gioventù si accinse a scrivere una storia delle guerre civili, ma fu bloccato dalle donne della famiglia.
Solo nel periodo di Seneca, pare, il ricordo del primo imperatore iniziò a incutere meno timore, e si poté parlare più liberamente – in negativo – di Augusto. Lucano, infatti, riuscì a concepire la Pharsalia e Seneca, nelle sue opere, si concedette non poche offese nei confronti del primo princeps (differentemente dal padre, Seneca il Vecchio, che scrisse una Storia delle guerre civili ma non volle pubblicarla per paura!).
La cultura come arma di potere
Dal quadro tracciato, concludiamo dunque che il principato di Augusto non fu un’epoca così pacifica come immaginiamo, almeno sul piano culturale. Nonostante lo stesso Svetonio conceda al periodo del principato di Augusto di essere stato “mitior” rispetto al “crimen” delle prime imprese di Ottaviano, il controllo ideologico e la censura erano all’ordine del giorno.
Quest’aspetto, però, non deve sorprenderci: è naturale che in un momento delicato quale il passaggio (piuttosto nascosto) dalla repubblica al principato di Augusto, colui che ha causato questo passaggio si assicuri una sua versione della storia, apologetica e soggettiva.
È l’eterno scontro tra storia e storiografia: da un lato verità, dall’altro ricostruzione soggettiva dei fatti. Chi l’avrà vinta, lo determina solo chi a quei fatti sopravvive, e può raccontarli.
Alessia Amante
Bibliografia sul principato di Augusto:
- Luciano Canfora, “Augusto figlio di Dio”