Exodus di Ridley Scott: l’analisi del film

Da due giorni in sala, Exodus di Ridley Scott è al secondo posto per incassi dopo l’”American Sniper” di Clint Eastwood, con i suoi quasi 600 mila euro guadagnati fino ad oggi, 17 gennaio. E il week end non si è ancora concluso.

Nonostante il biglietto in 3D, dunque, si corre al cinema di giovedì e venerdì sera per godersi la spettacolarità visiva che Ridley Scott ha sempre garantito, in particolar modo con le sue ricostruzioni storiche che con scioltezza lasciano alle università l’esattezza – in realtà anche solo la verosimiglianza – per abbagliare occhi e menti con i frutti di un budget sufficiente a sfamare uno stato africano per un anno.

Principe d’Egitto e della pellicola è Christian Bale, uno degli attori più promettenti della sua generazione che allieta gli animi insieme agli effetti visivi.

Tutto liscio, insomma: americanata per rilassarsi una serata.

Ebbene, no. C’è da riflettere sulla caratteristica fondamentale di un film che per sottotitolo ha “Dei e Re”: è un kolossal biblico.

La grande era di questo filone del cinema c’è stata negli anni ’40 e ‘50, quando la Bibbia si era fondamentalmente rivelata agli occhi dei produttori una miniera di trame suggestive che avrebbero dato occasione di sfoggiare corpi scolpiti, vestiti maestosi e soprattutto effetti speciali all’epoca sorprendenti e in continua evoluzione. Basta nominare solo alcuni di questi pezzi di storia, non necessariamente piacevoli per tutti, ma che almeno una volta nella vita si è stati costretti a guardare per compiacere zii nostalgici: “I dieci comandamenti”, “Salomè”, “Sansone e Dalila”

A circa cinquant’anni dalla fine di quella grande ondata, “Noah” di Aronofsky ha aperto di nuovo la strada al genere. E Scott lo ha seguito a ruota.

Perché?

È sicuramente troppo presto per darsi una risposta. Probabilmente tra vent’anni a chi studierà cinema apparirà chiaro. Possiamo solo constatare un’innegabile disperazione a Hollywood, che tra supereroi e remake aveva già mostrato poca iniziativa per quanto riguarda le sceneggiature originali, e che con quest’ultima tendenza ha davvero cominciato a raschiare il fondo del barile.

Exodus

 

Insomma, di certo c’è solo che la Bibbia conserva il suo gran numero di trame non eccessivamente articolate e ancora sfruttabili… e non arrischiamoci ad argomentare eventuali ritorni alla religione: non ci sarebbe di certo argomento peggiore per mettere d’accordo tutti e così portare quattrini al cinema, nel 2015.

Soprattutto: ha senso?

Per chi non ha voglia di arrivare fino alla fine dell’articolo ecco uno spoiler: la risposta alla domanda è no.

Di base, che ci si creda o meno, la Bibbia è un testo profondamente simbolico, semplice ed approcciabile a un livello superficiale, mentre è intricato di implicazioni morali, etiche e psicologiche archetipiche ad un livello più profondo. E lo è come ogni testo “mitico” che voglia spiegare l’origine del mondo e che in effetti costituisca le basi di una cultura.

Aveva senso ridurre tutto questo a kolossal di grandi battaglie e scenografie mastodontiche in quegli anni in cui guardare il Mar Rosso aprirsi per lasciar passare Mosè e i suoi faceva spalancar gli occhi e applaudire. Ma oggi “l’epicità” comunemente intesa come scene violente e patinate alla “300” di Snyder completamente costruite in computer grafica non stupisce più nessuno.

E ovviamente oggi si sente il bisogno di svecchiare il testo. E se “Noah” si spogliava di ogni sacralità per andarsene a spasso tra fantasy e racconto mitologico/fiabesco con tanto di morale, questo “Exodus” prova ad essere completo nell’analisi del mutamento di Mosè, nella precisa costruzione del contesto storico e nel titubante tratteggiamento di un Dio che c’è e non c’è (la mancata presa di posizione è troppo collaudata per accusare Scott di vigliaccheria). È un fallimento.

Ecco “l’ultima frontiera” del blockbuster, dunque: scomodare testi di un certo calibro per ridurli a polpettoni lucidi e gonfi di nulla.

Chiara Orefice