Nick Drake: un artista timido, schivo, di pochissime parole, che non rilasciava interviste o si faceva scattare fotografie, così sensibile da vergognarsi perfino di esibirsi in pubblico; un ragazzo che amava immergersi tra la natura, molto più che tra la gente, alla stregua dei romantici inglesi che studiava a Cambridge.
Al giorno d’oggi, insomma, il più comune ritratto di uno stupido o, peggio, di un pazzo.
Chi, infatti, avendo la grandissima opportunità di calcare un palco, non desidererebbe notorietà, un oceano di quattrini e milioni di fan urlanti ?
In quest’epoca, purtroppo, la cosa è data quasi per scontato, ma negli anni ’70 vi era, per fortuna, ancora un po’ di senno ed arte che, qualitativamente parlando, giovava parecchio del suo partire da poche o nulle pretese. Ars gratia artis, avrebbero detto i latini: fare arte, ma senza aspettarsi di ricevere necessariamente qualcosa in cambio.
Proprio così, infatti, è morto Nick Drake, a soli ventisei anni, in quella notte del 25 novembre 1974: da perfetto sconosciuto; stesso discorso per i suoi tre album.
Ancora oggi, a distanza di quarant’anni, della sua morte si sa molto poco: si possono azzardare soltanto ipotesi, che partono tutte dal fatto che Nick Drake soffrisse di insonnia, a sua volta dovuta a depressione, e che cercasse di venirne fuori grazie alla amitriptilina.
Esagerò con le quantità, questo è assodato, ma non si sa se volesse dormire un po’ più in fretta o per sempre…
Alcuni, facendo leva sugli insuccessi della carriera musicale e sulla malinconia di alcuni versi delle sue canzoni, parlano di suicidio; altri, invece, affermano che si sia trattato di un semplice incidente, considerando anche che l’artista non abbia lasciato “biglietti di addio”.
“La risposta è avvolta nel vento”, avrebbe detto Bob Dylan, principale modello statunitense a cui Nick Drake, inglese della provincia di Birmingham, si ispirava per il suo folk.
Fives Leaves Left (Island Records, 1969).
Il titolo deve il nome alla scritta che compariva sulle confezioni di cartine, quando stavano per terminare: “rimangono cinque fogli”. Significato letterale di leaves è, però, quello di foglie e quindi, così inteso, il titolo farebbe pensare agli alberi spogli e a quelle atmosfere malinconiche, “autunnali” presenti nel disco.
A nudo ci si mette anche Drake, distaccandosi in questo proprio da Dylan: nessuna tematica socio-politica, ma canzoni che parlano di sé stesso, della propria interiorità.
Tra l’altro, per uno scherzo del destino, anche a Drake restavano soltanto cinque foglie, cinque anni da vivere…
Album di dieci tracce, composte per lo più durante il periodo universitario, che mischiano ed incrociano suggestioni differenti. Si parte da un folk sinfonico, che deve molto agli archi di Robert Kirby, compagno di college di Drake. Altrove (Man in a shed e Saturday Sun) ritroviamo suoni tra il blues e il jazz e in Time has told me delle venature un po’ country, suonate dalla chitarra di Richard Thompson dei Fairport Convention.
A produrre Joe Boyd, già a lavoro con The Incredibile String Band, Pink Floyd, per il singolo Arnold Layne, e Fairport Convention.
Brani migliori: Time has told me, Cello Song, con violoncello e conga, la delicata Thoughs of Mary Jane e le malinconiche Day is done e Way to blue.
Bryther Layter (Island Records, 1970)
Il titolo corrisponderebbe a brighter later, ossia a “schiarite più tardi”, frase utilizzata per le previsioni del tempo.
Drake voleva forse far riferimento al fatto che il suo animo si fosse rasserenato e, in effetti, i dieci brani sembrano confermarlo: non vi sono più atmosfere cupe e malinconiche.
Le canzoni si dilatano e si complicano negli arrangiamenti, virando verso il progressive folk. La batteria, praticamente assente nel primo album, diventa onnipresente. Restano gli archi di Kirby. Ma, ancora una volta, la sperimentazione è tanta e ne viene fuori, perciò, un album multiforme, ancor più del precedente.
Cori gospel in Poor Boy, sax alto in At the chime of a city clock, il clavicembalo baroccheggiante di Fly, il country di Hazey Jane II, il flauto delle strumentali Bryter Layter e Sunday.
Vi collaborano Thompson e altri due membri dei Fairport Convention (Dave Mattacks, batteria e Dave Pegg, basso), oltre a John Cale dei Velvet Underground.
Vera perla dell’album è Northern sky, meravigliosa nella sua semplicità.
Dopo due album in cui aveva, di fatto, subito le decisioni musicali del produttore Joe Boyd, prese per motivazioni puramente commerciali, Drake decise di fare a modo suo, chitarra e voce, accorgendosi del fatto che le vendite erano state comunque finora molto scarse. Per quanto male potesse andare, non avrebbe potuto fare molto peggio. Non ci sono due flop senza un terzo….
Pink Moon (Island Records, 1972)
Il vero capolavoro di Drake, del Drake più autentico. Undici brani, brevi, intensi e scarni, da vero folker. Ventinove minuti di pace e poesia. A produrre John Wood.
Le precedenti canzoni erano sicuramente più complesse, più complete, meglio arrangiate, ma l’artista, con soltanto una chitarra, non si fa assolutamente rimpiangere, dimostrando, tra l’altro, una tecnica strumentale impressionante (Road), che forse nei due album precedenti era rimasta un po’ nascosta.
Si consigliano: la titletrack, Place to be, Which will, Things behind the sun, Parasite e From the morning.
Roberto Guardi