Royal Tenenbaum comprò la casa in Archer Avenue durante l’inverno del suo trentacinquesimo anno di vita.
Nessuna via di scampo, veniamo catapultati fin da subito nel mondo dei Tenenbaum.
La voce narrante, che ci fa da cicerone tra gli eventi della famiglia quasi volesse fungere da ulteriore spiegazione dei comportamenti dei protagonisti, ci preannuncia lo spettacolo; le vicende dei Tenenbaum in una villetta newyorkese. Non ci interessa altro, nessun elemento di contorno, nessun dettaglio che non sia strettamente collegato ad esse.
Royal Tenenbaum (Gene Hackman) è il capostipite della famiglia, radiato dall’albo degli avvocati dopo due cause intentategli dal suo stesso figlio. Si aggrappa ad un lusso che non può più permettersi, attraverso un savoir faire e ostentando costosi vestiti gessati che tanto ricordano quelli delle figure maschili della Little Italy degli anni ’30, con la differenza che Royal Tenenbaum del pater familias non ha nulla.
Amante della vita e delle donne, Royal non impiega molto tempo, dopo aver messo al mondo due figli e averne adottata una terza, ad essere cacciato di casa dalla moglie Etheline e a scomparire dalla circolazione.
Incarna il ruolo di madre single dedita ai figli un’eccezionale Angelica Huston, osservatrice ingenua della vita, che sembra quasi non capire ciò che ha intorno. Nonostante ciò riesce a crescere tre bambini prodigio: Chas Tenenbaum (Ben Stiller) esperto di finanza; Margot Tenenbaum (Gwyneth Paltrow), adottata, drammaturga vincitrice di una borsa di studio; e Richie Tenenbaum (Luke Wilson) campione di tennis dall’età di sei anni.
Ma ecco il rovescio della medaglia. Ci ritroviamo ventidue anni dopo davanti ai tre geni che hanno acquisito le caratteristiche della talentuosa ma complessata famiglia Glass di J.D. Salinger: pessimisti, fobici e depressi.
Da questo momento il regista Wes Anderson dirige un cast di eccezione.
Ben Stiller è un ipocondriaco maniaco della sicurezza, dopo aver perduto la moglie in un incidente aereo, ha come unica preoccupazione quella di mantenere in vita i due figli.
Gwyneth Paltrow è superba nella sua interpretazione di drammaturga fallita e depressa, fumatrice incallita all’insaputa di tutti, amante libertina, ricorda i bohemiens e gli artisti maledetti della Francia ottocentesca.
Luke Wilson è quello introverso e sensibile dei tre, da sempre innamorato della sorella, tenterà anche il suicidio, portandosi al culmine della somiglianza con Seymour Glass di Salinger.
Il destino vuole che tutta la famiglia, compreso Royal Tenenbaum, si ritrovi sotto lo stesso tetto. Come si suol dire tutti i nodi vengono al pettine, in questo caso è la villetta della frase iniziale a fare da pettine e da sfondo alla storia, rimanendo forse l’unico elemento concreto e statico in grado di collegare i personaggi surreali di Anderson alla realtà.
Il film è fondamentalmente un’analisi psicologica della famiglia americana. Magari non quella standard che eravamo soliti vedere in La vita è meravigliosa di Frank Capra. Piuttosto, quella di Wes Anderson, aiutato nella sceneggiatura da Owen Wilson (che nel film veste i panni di uno scrittore dedito alla mescalina, anche lui in fondo disadattato poiché il suo unico desiderio sarebbe stato quello di essere un Tenenbaum), incarna i problemi e i sogni mancati della società americana degli anni ’70.
Ovviamente il regista ci mette del suo. Il divorzio dei genitori, la mancanza di un modello da seguire, temi ricorrenti dei suoi film come Rushmore e Moonlight Kingdom.
È questo un ritratto grottesco, al limite del tragicomico. Un pomeriggio padre-figlio si conclude con un combattimento tra cani, un matrimonio salta a causa di un inseguimento che costa una caviglia fratturata al prete.
I dialoghi pacati ma d’effetto ci cullano nella narrazione che sembra quasi non avere una durata temporale ed effettivamente non sappiamo con sicurezza in quanto tempo si svolga la storia.
Wes Anderson porta sullo schermo un’opera geniale che, se inizialmente si presenta come una commedia leggera, ci porta in realtà a riflettere sui valori della famiglia, del perdono e, paradossalmente, del tempo che scorre.
In conclusione è difficile credere che il tocco di irrazionalità che è più o meno nascosto in noi, non ci porti a desiderare di far parte, seppur per una scena soltanto, del piccolo universo dei Tenenbaum.
Celia Manzi