Una celebrazione del più grande e famoso tra i cantautori italiani, Fabrizio De André.
Vi sono alcuni grandi artisti che, anche a distanza di decenni, da morti o dopo che hanno smesso di produrre arte, continuano a far parlar di sé: indubbio merito dei personaggi stessi, che sono riusciti a creare dal nulla qualcosa di tanto grande e importante da mantenersi vivo ed intatto nella memoria collettiva, travalicando i confini del tempo e, talvolta, dello spazio.
Ma grandissimo merito – o demerito – va anche all’opinione pubblica, che ogni tanto torna a riconsiderare determinate questioni e che non si esime mai dal dover a tutti i costi dire qualcosa in più del già detto, pur di irrobustire una fiamma che riscaldi tutti o pochi, ancora un po’, almeno fino a quando quel fuoco possa essere ancora rinvigorito, ossia prima che l’attenzione circa tali argomenti non scemi del tutto.
In alcuni casi iniziative del genere, intellettualmente oneste nonché dettate da un reale interesse per gli argomenti e i personaggi in questione e da una concreta volontà di approfondimento e divulgazione, risultano essere molto apprezzate ed utili; in altri, invece, si rivelano soltanto una meschina speculazione, un incivile sciacallaggio mascherato da arricchimento comune, dietro cui si cela, in realtà, un vantaggio – economico, per lo più – che gioverà concretamente soltanto a pochi.
Troppo spesso, purtroppo, viene infatti sollevato inutile baccano mediatico, fatto di scandalismi di bassa lega, notizie che si riducono a del fastidioso ed invadente gossip e maldestri tentativi di analisi sociologica intorno a personaggi scomodati ogni qualvolta si debba o voglia vendere qualche copia in più o aumentare lo share degli ascolti.
Elvis Presley, John Lennon, Bob Marley, Jim Morrison, Michael Jackson, Kurt Cobain, gli esempi più eloquenti di musicisti cui sia toccata questa infausta sorte. In Italia, invece, il personaggio più gettonato per simili bassezze è stato Fabrizio De André.
I dibattiti sul cantautore genovese, più importante interprete della canzone d’autore nostrana, sono ancora oggi accesi. Ben venga, se non fosse per il fatto che si discute troppo dell’uomo e troppo poco del musicista. Si blatera noiosamente, infatti, della sua incoerenza, del suo paternalismo borghese, del suo arrivismo e di tanti altri argomenti da cui si presume di inferire sulla sua buona o cattiva reputazione.
Ma almeno oggi vorremmo parlare solo di musica e dell’ enorme contributo che egli ha saputo fornire in tredici album in studio (cui si aggiungono numerosi singoli) e in quasi quaranta anni di carriera (1961-1998).
Un ritratto di De André, infaticabile sperimentatore
Definire precisamente chi o cosa sia stato Fabrizio De André è un’ operazione molto complessa. Egli è infatti uno di quegli artisti e una di quelle personalità tanto poliedriche e tanto ricche da sfuggire a qualsiasi tentativo classificatorio, a qualsiasi tipo di definizione, che risulterebbe certamente limitativa.
Poeta, scrittore, traduttore, intellettuale impegnato, appassionato di folklore, di lingua e cultura nazionale e straniera, musicista, ma soprattutto cantautore, il più grande del novecento dopo Bob Dylan.
Questo sincretismo di influenze e di interessi è finito, manco a dirlo, anche nella sua musica, continua sintesi e perfetto amalgama degli elementi più disparati.
Una simile sperimentazione è stata la sola traccia ricorrente di un percorso musicale in continuo dinamismo, sonoro quanto tematico, particolarmente evidente nei concept (La Buona novella, basato sui Vangeli apocrifi; Non al denaro, non all’amore né al cielo, ispirato ad alcune poesie tratte dall’Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters; Storia di un impiegato, concentrato sul ’68).
Veniamo ai testi: punto di forza costante sta, ad esempio, nel possedere la forza espressiva della narrativa breve, quella stessa capacità di raccontare in maniera stringata, pur non perdendo in incisività ed efficacia. Essi dedicano spazio, inoltre, alle storie degli ultimi, degli emarginati, ricordando in questo il naturalismo francese, il Verga novelliere oppure certa letteratura neorealista, fortemente imbevuta di tematiche sociali. Prosa, quindi, ma anche poesia.
I suoi testi possedevano infatti la musicalità e la cantabilità tipicamente fornita dal verso, in particolar modo dall’endecasillabo (La guerra di Piero, La canzone di Marinella). Non si dimentichi, ad esempio, che De André musicò il più famoso sonetto di Cecco Angiolieri, S’i’ fosse foco (nell’album Volume III), riportando in auge una vecchia abitudine dell’antica poesia – non a caso – lirica francese, ossia quella di essere recitata con accompagnamento musicale.
Altro elemento interessante è rappresentato da tematiche e leggende mutuate proprio dal medioevo francese, come in Carlo Martello ritorna dalla battaglia di Poitiers. Altre affondano, invece, le radici nel mondo pastorale sardo.
Anche dal punto di vista linguistico, De André amava sperimentare. Utilizzava un linguaggio letterario, colto, aulico, ma che allo stesso tempo non fosse del tutto incomprensibile e che fosse, soprattutto, crudo, realistico, ironico, per meglio poter svolgere quella funzione critica e dissacrante che si proponeva.
In quanto a forma espressiva, è stato un grande amante dell’italiano e delle sue più disparate varietà. Ha cantato, oltre che in lingua, in ligure (tutto l’album Crêuza de mä), in napoletano (Don Raffaé) e in gallurese, dialetto sardo (Zirichiltaggia e Monti di Mola).
Forma musicale più usata e per la quale è diventato famoso è, infine, la ballata, musicalmente essenziale e ripetitiva.
Roberto Guardi