A cavallo tra Le notti di Cabiria e 8 ½, due capolavori dall’indiscusso valore artistico, si colloca La dolce vita, diretto dall’ormai affermato Federico Fellini (già vincitore di due Oscar) e scritto dal noto sceneggiatore italiano Ennio Flaiano, collaboratore del regista e figura emblematica dell’epoca d’oro del cinema italiano.
Ma è subito scandalo! Il nuovo film di Fellini è offensivo, blasfemo, vergognoso, molti si sentono offesi. Il regista emiliano è addirittura sfidato a duello, la critica si divide, l’opinione pubblica si spacca e intanto La dolce vita entra nella storia. Il film grazie al quale il regista rompe con il neorealismo e che segna la nascita (già anticipata in realtà in alcune sue opere precedenti) del cinema “felliniano”.
Con La dolce vita, Fellini si addentra in un mondo contorto, un mondo magico e realisticamente sporco, luminoso e decadente, superficiale, subdolo, quasi privo di valori, di contenuti. Un mondo aperto a tutti ma chiuso in se stesso, in una sorta di magia, di illusione, di trepidante attesa, che cerca di allontanare tutto ciò che possa in qualche modo ricordare le contraddizioni sulle quali si regge il mondo stesso.
La trama
Un elicottero trasporta verso il Vaticano un Gesù di pietra con le braccia aperte in segno di benedizione. L’elicottero è scortato da un veicolo nel quale il reporter Marcello (Marcello Mastroianni) e il paparazzo seguono l’azione. Proprio loro, che come tanti altri, sono responsabili delle ondate di flash che illuminano le strade di Roma ogni qualvolta che arriva una grande stella del cinema o quando una personalità nota incontra la sua amante.
Il modus operandi è sempre lo stesso: mentre il paparazzo scatta una foto dietro l’altra, Marcello li avvicina in modo discreto, chiacchiera con loro, provoca in loro irritazione, curiosità, gioia e se colpisce, li accompagna anche per i locali notturni della capitale. Via Veneto è la sua seconda casa, è qui che nei locali simbolo della vita mondana romana, Marcello incontra i personaggi più disparati, nobili, attori, ragazze che sognano di essere notate. Marcello però non è solo osservatore di questa società, egli è come i personaggi che insegue nelle strade di Roma, parte di questa società.
L’affascinante Marcello in piena sintonia con questo mondo, dà inizio alle sue avventure notturne: vaga con Maddalena (Anouk Aimé), figlia di un miliardario, insegue e accompagna la quasi inafferrabile diva del cinema svedese Sylvia (Anita Ekberg). Si ritrova poi immerso in un castello principesco frequentato dal bel mondo cinematografico romano, un party che si trasforma quasi in un’orgia. Le notti non finiscono mai e Marcello si trova nel circolo intellettuale dell’amico Steiner (Alain Cuny), dove quasi riscopre la vocazione per la scrittura.
La dolce vita, un capolavoro italiano
La dolce vita è un film che ha fatto e fa ancora oggi scuola nel genere film d’autore. Fellini infatti riesce, grazie alla sua indiscussa abilità, ad imporre la sua visione al film, scavalcando la macchina produttiva. Rompe con la tradizione della rappresentazione lineare della storia, presentando il film come episodi all’apparenza casuali; si serve dell’accecante luce del giorno e delle luci cittadine, per dare vita ad una fotografia che dia uno sguardo d’insieme, l’immagine di una città che sogna ad occhi aperti. La si può definire altresì un’opera barocca, per l’impatto visivo che il film provoca sullo spettatore, grazie anche ad una spettacolare ricostruzione in studio di Via Veneto.
La dolce vita non decide di rompere con il neorealismo e Fellini non dimentica la lezione sul cinema del dopoguerra, semplicemente ha bisogno di un nuovo tipo di arte che sia capace di interpretare la nuova società italiana, appena uscita dal boom economico, molto lontana dalla spontaneità e dalla semplicità del mondo, soprattutto contadino, appena uscito dalla guerra. C’è quindi nell’intento di Fellini, l’intenzione di rappresentare la fine di un periodo storico e l’inizio di un altro, che porterà con sé nuovi uomini, uomini come Marcello, disillusi, sognatori, intrappolati perennemente in un mondo irresistibile che seduce e che sa sedurre.
Del resto, il regista romagnolo non è l’unico nel panorama italiano a “tagliare” in maniera così netta rispetto al passato. C’è un’intera generazione di registi, cresciuta nel pieno neorealismo, che sente la necessità di dare vita ad un’arte diversa; necessità che variano a seconda del cineasta, tant’è che mal riuscirebbe un tentativo di inquadrare il cinema italiano degli anni 60 in un movimento, troppe le personalità, diverse le intenzioni e vari i soggetti. Per farsi un’idea della varietà offerta dal cinema di quegli anni, basti pensare ad Antonioni che inaugurò il cinema dell’esplorazione narrativa attraverso il contrasto tra uomo e donna e il disagio esistenziale, il cinema d’inchiesta di Rosi, il western di Leone, l’opposizione alla morale di Pasolini e chi più ne ha più ne metta.
Roberto Carli