Film francese uscito in sala il 5 febbraio 2015, per la regia di Philippe de Chauveron, “Non sposate le mie figlie!” ha quel vantaggio tipico delle sceneggiature discrete: sembrare una commedia brillante a qualche giorno di distanza, quando la memoria da un lato opacizza la recitazione atroce e rende indulgenti verso una trama da occhi al cielo, e dall’altro fa emergere il ricordo di alcune singole battute riuscite e di un cauto ma efficace spirito sarcastico.
Trama (quella da occhi al cielo)
I Verneuil sono francesi “autentici”, bianchi, cattolici, tradizionalisti, di destra. O almeno, a questa descrizione risponde il capofamiglia, Claude (Christian Clavier), sposato con Marie (Chantal Lauby), una donna fragile, spaurita, animata da uno zuccheroso ed incerto buonismo cristiano che la porta ad affrontare “come si deve” i matrimoni delle sue prime tre figlie.
“Come si deve” vuol dire: come la dottrina del “politicamente corretto” impone. Non che ci sia niente di male, per carità.
E così, Chao, David e Rachid, rispettivamente cinese, ebreo e musulmano, sono entrati a far parte della famiglia in qualità di generi. Ma ora anche l’ultima figlia, Laure, ha dato il grande annuncio: si sposerà con Charles! L’inghippo è questo: il suo fidanzato non solo è di colore, ma ha un papà razzista quasi quanto Claude.
L’intreccio non colpisce per la sua freschezza, naturalmente, fa quasi anni ’90 con il suo finale al miele che lascia nell’aria qualche vago sospiro di utopica fratellanza. Finale che ovviamente consiste in un matrimonio durante il quale chi precedentemente si odiava balla abbracciandosi.
Il dilemma dello stereotipo
Quando ci si ritrova a guardare un film che gioca sugli stereotipi (e “Non sposate le mie figlie!” è fatto unicamente di quello) s’ha da fare una scelta: voler credere che gli autori abbiano voluto ironicizzarci su, o convincersi che invece sono rimasti invischiati in quello stesso gioco di luoghi comuni? Sfatare miti, insomma, non ne creerà altri, come quello del musulmano non praticante, o dell’ebreo negato per gli affari?
Probabilmente delle interpretazioni meno affettate avrebbero aiutato. Se forse i tre generi sono la parte migliore del cast, la famiglia di Charles, quella di colore per intendersi, è quasi fastidiosa da guardare. Purtroppo, in italiano, è anche terribile da ascoltare a causa di un doppiaggio che vuole sottolineare la provenienza africana, ma che invece sembra essere la parodia trash di un dialogo fra Tarzan e Cita.
Il bersaglio del sarcasmo
Con battute non proprio mordaci ma quasi, con matrimoni misti di mezzo, e con un finale che per motto ha “vogliamoci bene e facciamo caciara”, l’interpretazione migliore che se ne può dare è quella di inno alla moderazione.
Si prende in giro l’eccesso: non solo quello razzista dei due padri di famiglia, assolutamente identici seppur di campi avversari, ma anche quello paranoico di chi vede in ogni battutina un insulto a ideologie, religioni, culture e chi più ne ha più ne metta. Si prendono in giro i modi di pensare rigidi che non hanno il coraggio di virare e di evolversi, e contemporaneamente anche la semplicistica accettazione di tutto senza spirito critico.
Si prende in giro insomma la mentalità che si priva della dialettica e che, estranea a qualunque forma di equilibrio, rifiuta l’obiezione e si allontana in un’unica direzione, che sia essa estremismo di destra o diplomazia talmente assolutizzata da diventare censura.
Un’idea che fa sorridere perché appare genuina e innocente, piazzata lì, tra i cartelloni di quei filmoni così tanto retorici, giocati sul contrasto nettissimo tra buono e cattivo, che tanto piacciono a Hollywood.
Chiara Orefice