La recente vandalizzazione di un’opera di Banksy ad Hounslow (quartiere occidentale di Londra), ha messo in luce un aspetto molto importante della street art: ovvero la durabilità e la tutela di queste opere nel lungo termine.
Tracciando una brevissima storia del genere artistico, vengono subito in mente le prime manifestazioni che legano la nascita del movimento, se così possiamo chiamarlo, alla volontà di denunciare disagi sociali e malesseri molto spesso legati alla periferia, nonché la decisione di farsi portavoce di movimenti socio-politici in netto contrasto con la politica cosiddetta “di palazzo”.
Le radici della street art sono però da cercare in un passato ben più remoto: molti storici dell’arte, infatti, affermano che questa pratica non sia altro che l’evoluzione naturale di quella pittura murale dell’uomo primitivo, prima espressione artistica e, soprattutto, comunicativa.
Duccio Dogheria nel suo speciale ArtEdossier, dedicato proprio alla Street Art, ricerca le radici più profonde e le evoluzioni più e meno note dell’attività. Uno studio e una catalogazione appaiono necessari, andando ben oltre i nomi più noti per le continue attenzioni dei media ma al tempo stesso il carattere spesso sfuggente dei suoi rappresentanti non ci lascia conoscere a pieno quest’universo.
Stiamo parlando, del resto, di una pratica considerata in molti paese, tra cui l’Italia, illegale. Le sensibilizzazioni e l’attenzione di molte associazioni e istituzioni hanno portato ad una controtendenza, con l’allestimento di spazi e tempi adatti agli stessi artisti, che possono così dare sfogo al loro talento. Basta pensare al festival di Roma, che ha riscosso un grande successo.
Ma si può istituzionalizzare un lavoro che è noto soprattutto in quanto espressione di dissenso?
A tal proposito un esempio molto facile da proporre è quello di Blu, artista italiano, che cancellò, nella notte tra l’11 e il 12 dicembre, i suoi due famosissimi murales berlinesi, Brothers e Chain, perché in totale disaccordo con il nuovo piano urbanistico della città, che prevedeva una riqualificazione, e una successiva “musealizzazione”, della zona, dove fino a poche settimane prima sorgeva una piccola comunità autonoma di artisti e creativi, per questo sgomberata.
Ma, in netta contrapposizione, si può invece citare il caso di Obey, celebre street artist in mostra lo scorso inverno al PAN – Palazzo delle Arti di Napoli, che ha negli anni sfruttato proprio la sua notorietà per entrare all’interno di musei e case dell’arte, nonché in case di privati collezionisti, proprio per farsi beffe di quel capitalismo che invece è protagonista e mecenate della sua produzione. nel 2015 è possibile creare addirittura una “settorializzazione” della Street Art, declinata in diverse espressioni: stencil, poster, sticker, installazioni che vanno ben oltre il semplice disegno su muro e che, per i materiali e il modo di realizzazione, presentano ovviamente problemi riguardo la manutenzione e la tutela di queste stesse opere.
Ma un discorso del genere ha senso? non tutti gli artisti apprezzerebbero, né cederebbero a un’ingerenza delle istituzioni nel loro lavoro. eppure, il fascino esercitato da grandi lavori come quelli di Banksy richiede necessariamente una riflessione.
L’Osservatorio sulla Creatività Urbana Inward e il Comune di Napoli si sono infatti attivati per preservare l’unica opera di Banksy presente in Italia, a Napoli. L’opera da tutelare è in Piazza dei Gerolomini, meta di numerosi turisti, soprattutto a seguito della spiacevole vandalizzazione dell’altra opera di Banksy presente in città, l’Estasi di Santa Teresa di via Benedetto Croce, nel 2010.
Apprezzato dall’opinione pubblica e dai moltissimi critici e storici dell’arte, come Achille Bonito Oliva – che considera Banksy “una delle più brillanti manifestazioni del contemporaneo, anche al di là del contenuto delle sue opere, il più delle volte opportunamente insolenti” – Banksy è al tempo stesso però il ritratto tipico dello street artist: schivo, restio alla fama, “anonimo”…nessuno ancora oggi conosce il suo vero volto e il suo vero nome. Quanto quindi è giusto intervenire sulle opere di un autore che è consapevole della loro caducità, del loro essere effimere?
Antonella Pisano