Quando la lira d’Orfeo, rimasta sepolta per secoli, venne rinvenuta da un poète maudit la cui ossatura culturale vantava Nietzsche, Schuré e Dante, in ben pochi s’accorsero del miracolo. In un cantuccio per sé riservato e lungi dal clamore del panorama lirico primonovecentesco egli, con fare da alchimista, miscelava le illuminations rimbaudiane all’inaudita potenza espressiva delle filosofie vitalistiche; occultato però ignominiosamente dallo storicismo di tendenza della manualistica tradizionale, di Dino Campana (1885 – 1932) altro non rimane per i più che un’ombra, una pallida silhouette che volteggia nella nebbia.
Eppure, l’aura di obnubilazione che circonda la sua figura di “poeta pazzo” e la tormentata storia editoriale dei Canti orfici (unica sua opera) hanno accresciuto, seppur tardivamente, il suo mito: Dino Campana rimane, nella penisola italiana, un caso isolato di antieroe decadente, nonché di santo patrono dei poeti esoterici.
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Dino Campana: l’annullamento del poeta nella propria opera
Eccettuando pochi motivi dominanti nella vita del poeta, quali la dromomania, le confuse idee politiche, il carcere e il manicomio, Federico Ravagli, tra i massimi biografi campaniani, sentenzia disperatamente: «Campana non esiste». Al di fuori dell’universo vorticoso proiettato nei Canti orfici, Dino Campana è zero, e ciò che avanza della sua biografia cade inevitabilmente nell’oblio. Oscuri sono i primi segni della sua psicosi, manifestatisi già fin dall’adolescenza trascorsa a Marradi, così come oscure sono le sue infinite peregrinazioni, di cui non si ha traccia certa.
Del resto, gli scenari urbani preponderanti all’interno dei Canti sono, alla maniera dei “fiumi” d’ungarettiana memoria, quelli che più l’hanno formato ed influenzato: Faenza, luogo degli studi ginnasiali; Bologna, in cui frequenta gruppi di goliardi ed intraprende le prime esperienze sul suolo lirico; Firenze, «sogno abitato di immagini plastiche», che scandisce il rifiuto degli ambienti culturali nei confronti della sua poetica.
Noto è, difatti, che il contatto di Dino Campana con gli aderenti al Futurismo fu quantomai fallimentare. Il più lungo giorno (prima stesura dei Canti orfici) cadde come goccia nell’oceano; non vide mai la luce, indifferentemente smarrita nell’unica copia manoscritta tra le carte del destinatario Ardengo Soffici, cofondatore della rivista Lacerba. Il poeta, già psicologicamente labile, dovette affidarsi unicamente alla sua memoria per riprodurre quanto travagliatamente aveva scritto in precedenza.
Col titolo definitivo, i Canti orfici vennero pubblicati autonomamente nella primavera del 1914; di qui, la fugace relazione con Sibilla Aleramo e l’assoluto declino psicofisico fino alla morte. Dino Campana non viaggiò “al termine della notte” ma, citando doverosamente Carlo Bo, rimase al suo interno senza mai più uscirne.
L’innovazione dei Canti orfici e alcuni passi scelti
In un prosimetro che alterna improvvisi bagliori a marcate zone d’ombra, i Canti orfici sono l’ultimo adempimento del culto della poesia. E se il carattere mistico dell’opera è indubbiamente un profondo debito nei confronti de I grandi iniziati di Schuré, di essa non va trascurata la matrice estetica, derivata da La beata riva di Angelo Conti, né tantomeno l’influenza (non certo gravosa, va detto) dei contemporanei Pascoli e D’Annunzio.
Come adduce Montale, Dino Campana fu presumibilmente cosciente del carattere innovativo della sua poetica, che offriva panorami entusiasmanti mediante l’armoniosa unificazione di esperienze letterarie eterogenee: una pretesa che sarebbe rimasta tale, senza un adeguato ornamento. Il registro stilistico, la metrica, la costruzione del periodo campaniani sono soltanto apparentemente trascurati, e nei particolari più sottili rivelano un’opera di cesellamento quasi parnassiana, fine ad un andamento musicale.
Così, nella prosa incipitale La notte, con un gusto lirico che pare rendere omaggio al Dante della Vita nova ed un fragilissimo quanto sapiente equilibrio fonetico, il confine tra sogno e realtà appare labile, rarefatto; nella dimensione onirica in cui il lettore viene trasportato, i contorni delle cose assumono nuove connotazioni che ne catalizzano il fascino dionisiaco. Se ne riporta un breve passo:
Venne la notte e fu compita la conquista dell’ancella. Il suo corpo ambrato la sua bocca vorace i suoi ispidi neri capelli a tratti la rivelazione dei suoi occhi atterriti di voluttà intricarono una fantastica vicenda. Mentre più dolce, già presso a spegnersi ancora regnava nella lontananza il ricordo di Lei, la matrona suadente, la regina ancora ne la sua linea classica tra le sue grandi sorelle del ricordo: poi che Michelangiolo aveva ripiegato sulle sue ginocchia stanche di cammino colei che piega, che piega e non posa, regina barbara sotto il peso di tutto il sogno umano, e lo sbattere delle pose arcane e violente delle barbare travolte regine antiche aveva udito Dante spegnersi nel grido di Francesca là sulle rive dei fiumi che stanchi di guerra mettono foce, nel mentre sulle loro rive si ricrea la pena eterna dell’amore. E l’ancella, l’ingenua Maddalena dai capelli ispidi e dagli occhi brillanti chiedeva in sussulti dal suo corpo sterile e dorato, crudo e selvaggio, dolcemente chiuso nell’umiltà del suo mistero. La lunga notte piena degli inganni delle varie immagini.
L’incontro sensuale del poeta con l’ancella assume le caratteristiche di un’iniziazione vera e propria alla Notte, qui sorella della Poesia («Lei, la matrona suadente»). Il simbolismo rimandante alla sfera artistico-letteraria offre un’atmosfera d’inviolabile vaghezza ad un mondo già offuscato: «colei che piega» è la raffigurazione allegorica della Notte in ginocchio, compiuta da Michelangelo Buonarroti sulla tomba di Giuliano de’ Medici; le «barbare travolte regine» sono quelle macchiatesi di lussuria che Dante incontra nel celeberrimo canto V dell’Inferno (si fa menzione anche a Francesca da Rimini); la «Maddalena» è una figura raffaelliana. L’amplesso in sé diviene indecifrabile, così come la fanciulla: manifestazioni fallaci, imagines rerum di un arcano mondo notturno.
La focalizzazione sul simbolo e la destrutturalizzazione del periodo, già prominenti nella prosa, vengono notevolmente ampliati sul versante poetico. La Poesia, incarnata dalla Chimera, è entità imperscrutabile, collocata ai confini della psiche umana; al poeta, vinto dal desiderio, dal sogno mai raggiungibile che la stessa Poesia gli offre, non rimane altro che la flebile speranza di sopravvivenza eterna per il proprio operato:
(da La speranza)
(…)
Per l’amor dei poeti, porte
Aperte de la morte
Su l’infinito!
Per l’amor dei poeti
Principessa il mio sogno vanito
Nei gorghi de la Sorte!
I Canti orfici non sono però del tutto esenti da processi descrittivi ancorati al concreto. Paesaggi urbani, marini, collinari e montuosi si diramano prorompenti, spesso accompagnati da un lirismo non distante da quello leopardiano. Un esempio è costituito dalle Immagini del viaggio e della montagna:
(…)
E il semplice cuore provato negli anni
A le melodie della terra
Ascolta quieto: le note
Giungon, continue ambigue come in un velo di seta.
Da selve oscure il torrente
Sorte ed in torpidi gorghi la chiostra di rocce
Lambe ed involge aereo cilestrino…
E il cuculo cola più lento due note velate
Nel silenzio azzurrino
Degni d’interesse nel passo sono la descrizione reminiscente dei vari topoi letterari di loci amoeni, nonché il rimando a Mallarmé per la “tinta azzurra” che pervade i versi e culmina nella sinestesia finale.
L’attenzione verso l’elemento pittorico: i Canti orfici come poema visivo
«Non è un veggente o un visionario: è un visivo, che è quasi la cosa inversa», scriveva Gianfranco Contini in un celebre saggio su Dino Campana. In effetti, le immagini suggerite dai Canti si snodano secondo un inconscio procedimento artistico che pare mutare la carta in tela.
Se la tensione pittorica dell’opera campaniana fosse visibile ad occhio nudo sarebbe, a parere quasi unanime della critica, vicina alle avanguardie ad essa contemporanee: Pasolini, a titolo esemplificativo, vi intravedeva una forte tendenza cubista nel linguaggio, ed un dinamismo tipicamente futurista nei processi figurativi; Montale, d’altra parte, non riusciva a fare a meno di accostarvi Carrà e De Chirico in particolare (quest’ultimo in concomitanza col poeta per il carattere evocativo delle rappresentazioni urbane).
È tuttavia lecito denotare che la spontaneità espressiva dei Canti consente ad essi con relativa facilità di coinvolgere attivamente l’intera sfera sensoriale del lettore. Dino Campana, pertanto, plasma la sua poesia così che si confonda e si fonda con le altre arti, circoscrivendo l’anima di chi si approccia alla sua opera in un movimento pregno di leggiadria e teso verso l’ideale.
Fonti
• Dino Campana, Canti orfici e altre poesie, a cura di Renato Martinoni, Einaudi, Torino, 2003
• Federico Ravagli, Dino Campana e i goliardi del suo tempo (1911-1914), Marzocco, Firenze, 1942
• Eugenio Montale, Sulla poesia di Campana, da L’Italia che scrive, Roma, 1942
• Gianfranco Contini, Esercizi di lettura sopra autori contemporanei, Firenze, 1947
• Pier Paolo Pasolini, Campana e Pound, in Saggi sulla letteratura e sull’arte, Milano, 1999
Pierluigi Patavini