“Into the Woods” è l’ultimo film di Rob Marshall, notissimo per le pellicole pop che non hanno segnato un’epoca, ma una serata al cinema forse sì, e che si riducono ad appena quattro titoli (“Chicago”, “Memorie di una Geisha”, “Nine”, “Pirati dei Caraibi – Oltre i confini del mare”). È in realtà un regista di musical prestato al grande schermo… e infatti è proprio all’arte di Broadway che dedica questa sua quinta fatica: “Into the Woods”, infatti, in uscita nelle sale italiane il 2 aprile 2015, nacque per il palco.
Into the Woods, il musical
Benché possa vantare qualche Tony Award, “Into the Woods” non è proprio uno degli spettacoli più conosciuti qui da noi, ma è anche vero che la cultura italiana, imbevuta di melodramma e Sanremo, a questo campo poco si dedica, e di musical sente parlare solo quando arriva in celluloide.
La trama si divide e si intreccia in modo intelligente destreggiandosi fra alcune delle fiabe più conosciute, collocandole tutte nei pressi del bosco caratterizzato tipicamente alla Grimm, e scomponendole per evidenziare ogni singolo personaggio e il suo più grande desiderio. Come diceva Maslow, un bisogno impellente è anche motivante, tanto è vero che ogni fiaba è messa in moto proprio da quel grande desiderio. Così, la necessità di Cenerentola di poter sognare si traduce in un vestito nuovo per andare al ballo; quella di Jack di provvedere a sua madre e alla sua mucca Bianchina vuol dire concretamente sperare che quest’ultima produca latte, e così via. Ma quali sono le effettive conseguenze del “Desidero più di ogni altra cosa…”?
Per scoprirlo, si seguirà il desiderio cardine – quello del fornaio e di sua moglie (James Corden e Emily Blunt) – che a sua volta mette in moto “Into the Woods”: avere un bambino.
Toccata e fuga
Quella che è la principale caratteristica della pellicola si rivela essere anche il suo limite più grande. Avere a disposizione tante fiabe classiche, e in aggiunta quella nuova che tratta dei due sposi, non ha permesso alle radici di ogni storia di penetrare nello spettatore.
Benché quindi ognuna di esse sia costruita con attenzione e portata sullo schermo con discreta attenzione all’estetica, quel che ne viene fuori è una corsa a perdifiato di circa due ore che lancia in campo molti argomenti, molti pensieri e psicologie, molte azioni, maledizioni, incantesimi, e subito ne aggiunge altri senza che il peso dei precedenti si faccia sentire.
Così le musiche sono orecchiabili ma ci si ricorda solo dei motivi peculiari di ogni fiaba che hanno avuto l’opportunità di venire cantate più di una volta; così quel fior fiore di cast (Johnny Depp è davvero un bel lupo, Meryl Streep si sa che ha del divino nel sangue, e poi Anna Kendrick, Chris Pine…) che ha accettato di partecipare alla pellicola deve sgomitare per rilucere; e infine la trama, pur con il suo significato e i suoi guizzi, è stritolata dai limiti di tempo del cinema e dall’horror vacui di scenografia e costumi.
Le fiabe
L’intento è saggio: fare sano sarcasmo su alcune fiabe perché ci si ricordi che per i bambini sono modelli, esempi, sono buona parte di quell’ancora scarno repertorio di leggi sul giusto e sullo sbagliato.
Per questo, nonostante una certa mediocrità che purtroppo deriva dal voler essere brillanti in troppi aspetti, spuntano alcune piccole perle che inneggiano alla sincerità avversa al fascino ammaliatore, all’assumersi le proprie responsabilità, alla virtù di una curiosità in buona fede, e ad altri valori che forse la tradizione ha trascurato.
Tutti gli eroi e le eroine, allora, una volta che li si scopre come persone e non figure in due dimensioni, non possono sfuggire alla presa in giro, né tanto meno possono impedire che i loro difetti vengano alla luce. È questo che li rende più interessanti dei personaggi classicamente intesi. Ed è per questo, in realtà, che un senso di simpatia potrebbe nascere verso di loro da parte dello spettatore, più che per il fasto o per l’intreccio.
Chiara Orefice