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Dopo una digressione che ci ha portato ad inerpicarci per le colline di Napoli, non si può fare a meno di ritornare ad attingere a quell’uovo colmo di suoni, profumi ed arte che è il centro storico della città. Conosciamo bene lo zig zag che si è costretti a fare attraversando cardi e decumani protetti dall’UNESCO, mentre ci si divincola tra il rinascimento ed il barocco, tra un teatro greco ed un muro angioino ci troviamo in cima alla via di Mezzocannone, nella chiesa di Sant’Angelo a Nilo, difronte al monumento sepolcrale del cardinale Rainaldo Brancaccio.
La storia
Siamo inciampati in uno degli esempi più eclettici che si trova in scultura, quant’anche nell’intera storia dell’arte italiana, un’opera che dà il senso della varietà artistica più alta di Napoli nel tempo.
La chiesa si trova nel cuore dell’antico sedile Nilo, affacciata sulla piazzetta omonima dedicata al culto pagano del fiume, prospicente l’incrocio del decumano inferiore (inizio della più famosa Spaccanapoli) con piazza San Domenico Maggiore; Sant’Angelo a Nilo risale al XIV secolo. Nel 1385 il cardinale Rinaldo Brancaccio volle edificare, in quella zona, una cappella dedicata ai SS. Angelo e Marco, per poi arricchirsi e mutare attraverso il tempo, sino al rifacimento risalente al XVIII secolo che ce l’ha consegnata come l’ammiriamo adesso.
La massiccia facciata grigia e rossa, incorniciata da finte colonne squadrate sormontate da capitelli corinzi e che si è eleva su due livelli, conserva ancora il portale originale dell’ingresso principale risalente al XV secolo.
La Chiesa
Affacciandosi all’interno, la chiesa ci si presenta come il classico viaggio tra stili ed età che la maggior parte degli edifici napoletani di questo genere ci riserva; gli arredi marmorei ci raccontano storie di e ’600 e ‘700 tra cui spicca l’altare maggiore policromo, tipico del barocco napoletano già trattato la scorsa settimana. Lo stesso è sormontato dalla tavola del San Michele Arcangelo di Marco Pino del 1573, mentre spunta tra gli stucchi una tela di Giovan Battista Lama artista dell’ambito di Luca Giordano. Ma ciò che più ci interessa di questo edificio, si trova nel fondo della navata unica della chiesa; alla destra dell’altare maggiore, difatti, ci ritroviamo davanti ad una delle opere storicamente ed artisticamente più affascinanti di Napoli: il sepolcro del cardinale Rainaldo Brancacci.
Il sepolcro
Nato da un’importante famiglia napoletana, la carriera ecclesiastica di Rainaldo fu brillante arrivando ad essere amministratore apostolico di Aversa e a partecipare a sei conclavi. Il suo radicamento nella politica partenopea e la potenza del suo nome, portarono il cardinal Brancaccio ad edificare questa chiesa affianco al palazzo di famiglia e a commissionare, ben prima di morire, il suo monumento funebre agli artisti migliori di quell’epoca. Si affacciavano allora, sul panorama artistico, Michelozzo di Bartolomeo Michelozzi, detto Michelozzo e Donato di Niccolò di Detto Bardi, semplicemente Donatello.
A loro si rivolse l’ecclesiastico per progettare e costruire la propria tomba, in un periodo storico-artistico di passaggio tra il vecchio statico medioevo gotico e il fresco stile rinascimentale che sarebbe esploso alle fine del XIV secolo.
Donatello e Michelozzo furono il raccordo tra le due epoche artistiche, pur apprezzando le linee tardo gotiche, tanto celebrate nella stessa Napoli da Tino di Camaino in poi, i due riuscirono a guardare avanti rinnovando gli antichi schemi medievali.
Il lavoro ed il connubio lavorativo tra i due artisti fu intenso e li portò a collaborare dal 1425 al 1428, fondando una bottega in quel di Pisa vicino sia alle cave di Carrara che al mare; infatti, il marmo è il protagonista di tutta l’opera come il mare fu la strada che essa, una volta completata, intraprese per giungere a Napoli.
La progettazione del monumento prende come base il più tradizionale schema trecentesco della tomba a baldacchino, copiandone lo scheletro, i supporti, ma aggiungendovi la novità dei del più puro rinascimento italiano.
Il baldacchino è fissato su uno zoccolo da cui si elevano due colonne scanalate che reggono un arco a tutto sesto da cui pendono dei drappi; questo è sormontato dalla più gotica cuspide con al centro un clipeo entro in cui è la figura di Cristo. Ai lati, due statue di angeli con le trombe dell’Apocalisse.
L’interno del baldacchino trova in alto, a muro, un rilievo con una Madonna con il bambino affiancata da due santi; al di sotto, in piedi sul sarcofago vero e proprio, due angeli che scostano la classica cortina che nascondeva la figura sdraiata del cardinale. Infine, a reggere il sepolcro, tre statue di cariatidi.
La tomba, appunto, è il fulcro di tutto il monumento e del nostro articolo; infatti, affiancato da due stemmi della famiglia Brancaccio, è incastonato, come preziosa gemma, la lastra a bassissimo rilievo dell’Assunzione della Vergine, opera del genio di Donatello. Si tratta del famoso “stiacciato”, tecnica scultorea di delicata e preziosa fattura (sia su lamina che su pietra) che concerne nel sottile rilievo o incavo, rispetto al fondo, delle figure. Ne fu proprio l’artista fiorentino il precursore e sperimentatore, introducendo questa tecnica nell’ampio mondo artistico del primo rinascimento.
Dal genio di Donatello, questo tipo di tecnica, lo ritroviamo in poche altre occasioni come nel rilievo della Madonna dei Pazzi e nella formella del Banchetto di Erode nel fonte battesimale del Battistero di Siena.
È questo un altro scorcio inaspettato di Napoli, che si conferma il più grande porto artistico che ha accolto tutto il meglio che il panorama artistico ha riservato alla nostra memoria. Quella che molto spesso perdiamo, che ci fanno perdere e che ogni Italiano deve assolutamente recuperare.
Liberato Schettino