Commentare il season finale di The Walking Dead forse è ormai uno dei capitoli della storia della serialità moderna che più siamo stati costretti a rispolverare in questi ultimi anni. Basti pensare che, con la divisione delle ultime due stagioni in due parti, di finali ne abbiamo visti ben quattro in soli due anni, e ci renderemmo presto conto dell’arduo compito al quale sono stati chiamati i fan a proposito.
Diciamo arduo perché parlare lucidamente di questa serie è diventato un miraggio: un pregio di pochi eletti che riescono a scrollarsi di dosso tutte le buone o cattive emozioni legate al caso, a dimenticarsi per un attimo di star guardando principalmente un telefilm drammatico e non una mischia clandestina di sangue, zombie e teste mozzate; insomma, di quei prescelti che sull’episodio conclusivo della quinta stagione, per quanto si possano sforzare di trovarci qualcosa di sbagliato, proprio non ci riescono.
È noto, da mesi a questa parte, che uno dei più sentiti rimproveri che si fa a The Walking Dead riguardi la lentezza, a volte quasi flemmatica, con cui porta avanti alcuni archi narrativi. Ma è allo stesso tempo risaputo che i tempi sono, per questa serie, sia il difetto più evidente sia il suo miglior pregio, che è proprio il motivo per il quale certi colpi di scena non passano minimamente inosservati.
Oltre sessanta minuti la durata della 5×16, lungo episodio con il quale si è conclusa la quinta stagione di un telefilm su cui il mondo del web ha dato già i suoi primi responsi. La verità è che è impensabile poterlo giudicare negativamente, soprattutto se lo si prova a fare alla luce di quei paragoni con altri prodotti o altri momenti della serie.
La verità è che il season finale 2015 di The Walking Dead è eccezionalmente cosa ben fatta, che fa tenere il fiato sospeso e ci cala in un universo che mostra, ogni giorno più che mai, agonia, sofferenza, dolore, psicosi, rimorsi di coscienza, nonché la fame, la disperazione che un contesto come quello apocalittico ha sicuramente fornito ai suoi protagonisti.
La verità è che con la 5×16 si chiude un percorso che ha avuto inizio già dalla 1×01, e cioè quello che ha avvicinato impercettibilmente, da chissà quanti kilometri di distanza, Rick e Morgan.
Già, proprio lui: lo stesso Morgan che stava alla finestra a sparare ai non-morti che gli circondavano la casa e che ora, perso tutto ciò che di più caro gli era rimasto (il piccolo Dwayne), rivediamo finalmente al centro della storia. E siamo sicuri che adesso un compito ce l’avrà, che darà di nuovo spolvero ad una serie che sembra essersi indirizzata a volersi chiudere come è partita, con l’incontro – questa volta definitivo – tra lui e l’ex sceriffo Rick Grimes.
La verità è che qualcosa è cambiato; anzi, molto è cambiato. E non poteva essere altrimenti. Morgan, colui che più di tutti è al momento capace di capire in cosa si sia trasformato l’amico Rick. È innegabile che l’intera serie si costruisca sul suo protagonista unico e su come il nuovo mondo è stato recepito ai suoi occhi, come è innegabile – tra l’altro – che in pochi sono stati forse capaci di percepire il reale stato in cui sembra essere finito da un po’ di tempo a questa parte. Ma è certamente sicuro, invece, che il ritorno di Morgan ci sarà utile, chissà se più di quanto non lo sia stato per Daryl e Aaron con quell’asta fra le mani.
Rick ha ritrovato la stoffa da leader, e sente di doversi fare carico di abituare Alexandria e, quindi, tutta la sua nuova famiglia, a “quel vasto oceano di merda” che c’è là fuori (parole di Abraham). La trama, e quello che è successo, la conosciamo piuttosto bene; a lasciarci le penne questa volta nessuno – o quasi, basti vedere il buon Reg negli ultimi secondi di puntata – a dimostrazione di come la morte in The Walking Dead 5 abbia smesso di essere l’unico motivo di colpo di scena.
Ad esempio, la verità più agghiacciante dell’ultima puntata, quella W. Che adesso diventa il simbolo con il quale riconosciamo una tribù del luogo, che evidentemente non ha così tanta predisposizione a stare con gli altri (se non per ucciderli) tanto da darsi il nome de “i lupi” (the wolves).
The Walking Dead, dopotutto, come in ogni finale che si rispetti, apre l’ipotesi a parecchie domande. Sulla prima non c’è quasi nulla da discutere, perché è cosa ormai certa che ogni fan della serie si stia chiedendo da anni da dove sia partita e fin dove sia diretta la storia. Non ci sono certezze, sicurezze su cosa sia stato The Walking Dead prima che Rick si svegliasse dal coma; nulla di chiaro su cosa sia il virus, su che tipo di estensione abbia avuto e chi e come abbia colpito.
La piattezza e la povertà di contenuti raggiunta durante alcuni momenti della stagione, o lo sciupato arco narrativo di Terminus e dei cannibali divora-Bob, sono pressoché insignificanti se rapportati all’enorme spessore di questo finale di stagione. Un finale di stagione che lascia aperti a pensare che The Walking Dead stia per “iniziare a finire”, che si trasformi anch’essa – come il suo Rick – in qualcosa che va oltre il suo limite, che lo riscatti.
Puntata degna dello stampo fumettistico a cui la serie si ispira, sarà il punto da cui partiremo, ancora una volta ad ottobre, con la sesta stagione di un telefilm che ci accompagna da ben un lustro e che, a buon diritto, è entrato a far parte stabilmente della cultura popolare.
Ogni stagione, e ancora di più ogni finale, hanno un prezzo, in morti o in emozioni; oggi The Walking Dead, di nuovo per bocca del suo emissario più importante ha voluto dirci, ha voluto parlarci, chiudendo le baracche ancora una volta nel segno di un solo uomo. In the name of Rick Grimes.
Nicola Puca
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