Cos’avranno mai di speciale i Blur? Chi sono? Tra i leader del brit pop degli anni ’90, eredi della tradizione inglese dei Beatles, dei Kinks e degli Who, re delle classifiche inglesi e non solo.
Il gruppo si forma a Londra − si può notare dall’accento del cantante Damon Albarn − nel 1989 e come abbiamo detto si colloca in un posto d’onore nell’era del pop britannico moderno, l’era degli Oasis, dei Verve, dei Pulp, degli Stone Roses.
Come si sa, inoltre, il leader del gruppo Damon Albarn ha creato nel 2000 i Gorillaz ed ha anche avviato una carriera da solista piena di soddisfazioni. Tanti i loro singoli famosi, come Song 2 e Coffee and TV, che si ricorda anche per i graziosi protagonisti del video: due cartoni del latte.
Gli inizi inglesi
Inizialmente, i Blur si legano fortemente alla tradizione pop britannica, rischiando di rimanere confinati al suo interno e morire in un eventuale tramonto di questo genere, di diventare un fenomeno passeggero e subito dimenticato. È con il terzo album, lo storico Parklife del 1994, che il gruppo si afferma nella propria particolarità di stile e scala le classifiche in Inghilterra, ricevendo però una tiepida accoglienza negli USA.
Il disco apre la strada a numerose band successive, come gli stessi Oasis, considerati i diretti “antagonisti” dei Blur, e riprende negli intenti i Kinks nel voler rappresentare un breve schizzo dell’Inghilterra contemporanea. Il suono preciso ed armonioso degli strumenti e delle voci ha reso i singoli di quest’album tra quelli storici della band, come l’omonima Parklife e Girls and boys.
Parklife ottiene il triplo disco di platino e il gruppo diventa uno dei più importanti della scena musicale inglese. L’album successivo, The great escape, è forse il più bello e il più completo, malinconico sotto i motivi accattivanti che ci fa ascoltare già a partire dai testi. Si pensi ad esempio a The Universal, pessimista sulla situazione presente e futura, e Charmless man, un irritato ritratto dell’uomo medio noioso e inconsapevole di se stesso.
Nonostante tutto questo, e nonostante il singolo Country house fosse arrivato primo nelle classifiche nazionali, il gruppo inizia ad essere messo in ombra dagli Oasis, che nel frattempo hanno dato alla luce (What’s the story) Morning glory?, disco che li consacrerà come la band principale d’Inghilterra. Così, Blur e The great escape passano in secondo piano e molti li dichiarano spacciati.
Blur: la sintesi tra Inghilterra e America
La svolta arriva quando Albarn si discosta dalla tradizione inglese interessandosi all’indie rock americano, già scoperto in precedenza dal chitarrista Graham Coxon.
L’effetto è che l’album Blur del 1997 viene apprezzato negli USA ma non completamente accettato dai fan inglesi, che non approvano il cambiamento della band. Le chitarre sono infatti diventate più ruvide e il suono più ritmato e meno corale. M.O.R. è quanto di più diverso ci può essere dagli stili iniziali, con un vago ricordo di David Bowie nella fase sperimentale di Berlino in certe inflessioni vocali e Beetlebum, forse osando un poco, ricorda il suono cupo dei Nirvana.
L’ultimo album (ormai penultimo!) Think tank, del 2003 e la cui copertina è stata evidentemente disegnata dallo street artist Banksy, è diverso dagli altri, ma non potrebbe essere altrimenti: gli anni ’90 sono finiti e bisogna andare avanti, come altre band inglesi fanno nel passaggio da un millennio all’altro. Si trovano molti sintetizzatori in questo nuovo disco: su tutti quelli di Brothers and Sisters. Ormai definitivamente, i Blur hanno abbandonato il pop degli esordi, ricordano i Radiohead in On the way to the club e ci offrono ritmi ipnotizzanti in Jets e suoni scalmanati in Crazy Beat.
Una grande evoluzione quindi, che porta i Blur nel bel mezzo della modernità senza però comportare una perdita di sé stessi. Sono queste le premesse per rivolgersi al nuovo album, il quale, dai singoli che i Blur hanno rilasciato in anteprima, sembra recuperare una parte di passato della band senza che questo comporti un’evoluzione.
Gaia Giaccone