Sin dall’inizio Chuck Close si è sempre messo in gioco, perseguendo un obiettivo preciso: fare qualcosa con cui non avesse familiarità, mettersi nelle condizioni di spingersi oltre, al di là di terreni sicuri, per arrivare dove non era mai andato prima. Il suo spirito, la sua perseveranza e la sua storia personale fanno di lui un personaggio straordinario.
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Chuck Close (1940, Monroe, Washington) ha contribuito notevolmente allo sviluppo del genere ritrattistico sin dagli anni ’60 indagando i volti delle persone attraverso le tecniche più disparate, dall’inchiostro alla grafite, al pastello, all’acquarello, all’aerografo, alla stampa, e perfino utilizzando le dita.
Strumenti intercambiabili, che non mutano però le sue intenzioni concettuali, rimaste sempre le stesse. È stato senza dubbio con la fotografia però il rapporto più fecondo; il modo in cui quest’ultima è stata assimilata alla pittura ha fatto di lui un pioniere del fotorealismo (movimento artistico pittorico nato tra la fine degli anni ’60 e l’inizio degli anni ’70 il cui fine per gli artisti era la riproduzione fedele e meticolosa della realtà visiva).
É sempre a partire da uno scatto fotografico che le sue opere sono nate e nascono ancora oggi. L’esempio concreto è una delle sue opere più famose, ovvero: “Big Self Portrait”, realizzata nel 1969 ed oggi al Walker Art Center (Minneapolis).
L’autoritratto eseguito senza l’uso del pennello (ma con aerografo soprattutto) è un capolavoro di perfezione, nel modo in cui è stato reso ogni singolo particolare del volto dell’artista, dai capelli, ai pori della pelle, al riflesso degli occhiali.
Prima sulla fotografia e poi sulla tela, viene realizzata una griglia, riprodotta e ingrandita più del vero, cosicché l’artista lavori all’interno di ogni singola cella del reticolato. Il risultato finale porta ad un immagine in bianco e in nero o in un’esplosione di colori.
“The Event” (l’Evento) è il modo con cui chiama la drammatica esperienza vissuta nel 1988 e che causa un brusco cambiamento nella sua vita: subisce un collasso dell’arteria vertebrale mentre é ad una cerimonia ufficiale, da quel momento rimane paralizzato, con la conseguenza di dover rimanere per sempre sulla sedia a rotelle.
Segue una lunga e dolorosa riabilitazione fisica, grazie però alla quale riesce a recuperare almeno in parte la funzionalità del suo corpo; questo gli permette di continuare a dipingere, dapprima aiutato da un assistente, e successivamente da solo pur dovendo trovare un espediente per farlo, cioè fissando il pennello lungo il suo avambraccio con una sorta di tutore da lui inventato.
In una condizione del genere era chiaramente impossibile riuscire ad ottenere quella meticolosità nella rappresentazione del particolare che caratterizza le sue prime opere d’arte, e tuttavia già da prima dell’incidente egli aveva modificato il suo percorso artistico allontanandosi da un aspetto strettamente iperrealista.
Se infatti le griglie attraverso cui si parcellizza l’immagine fotografica sono all’inizio sottilissime, quasi invisibili, col tempo queste hanno finito per emergere in un certo qual modo sulla scia di un cambiamento di stile.
La superficie pittorica delle opere degli ultimi decenni risulta essere un caleidoscopico alternarsi di celle all’interno delle quali colori caldi si scontrano con colori freddi, cerchi contro quadrati, e ancora linee morbide accostate a quelle più rigide, ed altre forme minime di astrazione espressiva. Segni semplici e privi di significato se guardati a un palmo dal naso, ma che visti invece da lontano si ricompongono come pixel digitali in un volto umano dalle grandi dimensioni.
Affetto da prosopagnosia (impossibilità di riconoscere correttamente il volto) Close rivela che “la ragione per cui ho deciso di lavorare con i ritratti è stato quello di impegnarmi nel mandare a mente le facce delle persone”. Il suo lavoro si può dire quasi una conseguenza diretta delle sue difficoltà di apprendimento.
I suoi modelli sono quasi sempre stati membri della famiglia, amici, artisti (Richard Serra, Francesco Clemente, Philip Glass, etc.) o personaggi famosi del cinema come della politica.
Audaci e d’impatto nella loro semplicità, ritratti senza mezzi termini, i volti umani sono usati come un modo per esplorare la propria e altrui identità, così come questa ci appare, ma soprattutto nascono da un’urgenza personale dell’artista, il quale li definisce come assimilabili ad una mappa stradale della vita di qualcuno, come uno specchio rivelatore di tutti i segni degli eventi che questi ha vissuto.
Marina Borrelli