Alcune intuizioni, con il loro buon grado di follia, diventano puntolini sulla timeline globale, influenzando gli inconsapevoli figli e nipoti di un’epoca. La cultura hippie, ad esempio, nel lasciare quella sua enorme e inestimabile eredità a chi è venuto dopo, si è curata anche di proporre una visione di Gesù e della sua ultima settimana di vita. Parliamo di un’intuizione in particolare: quella di Tim Rice e Andrew Lloyd Webber, i creatori del musical del 1970 “Jesus Christ Superstar”, diventato film appena tre anni più tardi sotto la regia di Norman Jewison.
Jesus Christ Superstar, tra umano e divino
Gesù (Ted Neeley) non è il figlio di Dio, ma un uomo che crede o sa di essere stato mandato da Lui a compiere un disegno che poco gli piace, anzi, che lo spaventa profondamente. Vede molto più lontano degli altri uomini, e conosce e comprende gli eventi molto meglio di loro. La sua qualità divina è però stritolata dal suo essere umano immerso nell’umanità. Chi lo circonda crede in lui, ma solo in quanto ribelle, guaritore, figura carismatica, insomma una superstar. Se in qualunque altro film la divinità rendeva Gesù già salvo dal suo destino di morte e dispensava gli spettatori dall’empatia, qui dolore, dubbio e tristezza, nelle loro accezioni meno celesti possibile, precipitano il Salvatore nel ruolo di vittima degli eventi. Questo Gesù è talmente umano che non avrà la sua Resurrezione, alla fine.
Giuda Iscariota (Carl Anderson) è in realtà il protagonista emotivo del musical: più cristiano di Gesù stesso, sempre preso dal discernimento di giusto e sbagliato, e tormentato per questo, si dimostra essere, sì, il traditore, ma di qualcuno che a sua volta ha tradito gli ideali con cui si era attorniato di discepoli. In Gesù Giuda vede l’irrazionale, la follia di chi è andato oltre e vuole proseguire verso l’autodistruzione. Questo è anche ciò che vede Ponzio Pilato (Barry Dennen), pronto a odiare e accusare l’imputato, ma messo improvvisamente di fronte a un innocente e alla necessaria logica di salvarlo da se stesso.
Maria Maddalena (Yvonne Elliman) è infine l’essere umano per eccellenza, in tutta la tenerezza che suscita il disorientamento di non saper gestire l’amore per Gesù. Come comportarsi quando sei innamorata di un sedicente figlio del Dio dei tuoi padri?
La musica e il deserto
Perché tradurre la storia che conoscono tutti in un musical rock? E perché proporla come se fosse un recital improvvisato da un gruppo di amici hippie capitati in un deserto israeliano e lì ispirati?
“Jesus Christ Superstar” rifiuta di avvicinarsi a Gesù, Giuda Iscariota e Maria Maddalena, ma al contrario ne afferra le linee guida dedotte dalle Sacre Scritture e le avvicina a sé, in un misto di rispetto profondo per l’essenza di ognuna delle figure e di ribellione alla distanza che da sempre si era messa tra umano e divino.
Quando uscì, fu giudicato blasfemo, e poco c’è da stupirsi: un musical hippie e rock, con un Giuda nero che spiega le sue ragioni, una Maddalena innamorata e un Gesù che non fa miracoli… deve essere stato destabilizzante, per l’epoca. E si ha avuto paura: comprensibile. E c’è stato però anche un incredibile successo di pubblico, comprensibile anche quello: finalmente un Dio di carne e ossa, come si ripeteva nelle omelie ma senza che davvero si sentisse la portata di un simile avvicinamento dell’onnipotente al mortale.
Ogni corrente giovanile ha ansia di riscrivere a proprio modo la storia, e se c’è da recuperare qualcosa dal passato, allora è bene che sia guardato dall’ottica giusta. Quale?
“La nostra, l’odierna, naturalmente” è la risposta di sempre. Posiamo dunque sul naso il paio di occhiali prescelto – quello hippie stavolta, quello anni ’70 – e guardiamo attraverso le sue lenti colorate la fede cristiana.
Anche se probabilmente quella poveretta è la fetta di storia che ha subito più riscritture di tutte.
Chiara Orefice