Stephane Mallarmé e Paul Simon: un confronto

Lo scalpore generatosi nell’ambiente intellettuale parigino alla pubblicazione dei Fiori del male di Baudelaire (avvenuta nel 1857), netta opposizione all’esasperazione estroversa di un Romanticismo ormai sempre più ripiegante su di sé, ben presto si tramutò in elettrico fervore. Molteplici furono i poeti a raccogliere l’eredità baudelairiana: tra di essi, Stephane Mallarmé (1842 – 1898), i cui echi pervennero fino al nostro Ungaretti, fu il vertiginoso demiurgo di una poesia suggestiva nella sua oscurità.

Alcune delle sue tematiche, sia per effettive influenze indirette che per semplici associazioni di pensiero (e, ci si augura, non per voli pindarici dell’autore dell’articolo!), sono addirittura comparabili ad elementi fondamentali della cultura di massa.

Mallarmé
Charles Baudelaire

L’Azzurro e la pagina vuota

L’attenzione di Mallarmé nei confronti del non detto e del non dicibile è menzionata in , magnum opus cinematografico di Fellini, dal personaggio di CariniRicorda l’elogio di Mallarmé alla pagina bianca? E di Rimbaud?»). La poetica di Mallarmé denota, in effetti, un motivo ascensionale, un tentativo di culminare nell’Assoluto; e viene tuttavia rispinta verso il basso dalla coscienza dell’umano fallimento.

Laddove, dunque, il giovane Rimbaud, forte della sua declamata chiaroveggenza, ricerca mediante «sregolamento dei sensi» e scrutamento della propria anima i frammenti dell’essenza delle cose, Mallarmé, incapace di comprendere il mondo anche mediante fugaci illuminazioni, ne offusca i tratti mediante simboli e complessi espedienti stilistici e tecnici quali omofonie o interlinea, favorendone l’indeterminazione.

Mallarmé
Eugène Bodin, “Nuvole bianche, cielo blu” (1854-1859)

Negli anni del Parnasse Contemporain, cassa di risonanza delle innovazioni poetiche francesi, Mallarmé, che ingentemente vi contribuì, pareva già vinto e schernito dalla cosa in sé. Nella chiusura de L’Azzurro (colore inteso come metonimia del cielo, a sua volta simbolo dell’Ideale), l’impotenza comunicativa del poeta risiede in un inno spasmodico e primitivo:

Invano! L’Azzurro trionfa, lo sento che canta
nelle campane, anima, che si fa voce
e più ci spaventa con la sua cruda vittoria,
ed esce dal vivo metallo in celesti angelus!

Antico prorompe attraverso la bruma e trafigge
la tua esistenziale agonia come spada sicura;
dove fuggire nell’empia, vana rivolta? Ossesso
io sono. L’Azzurro! L’Azzurro! L’Azzurro! L’Azzurro!

Il desiderio irrisolto di esprimere l’imperscrutabile converge inevitabilmente in una poesia in cui l’ombra ha più rilievo della luce, ed il silenzio è intervallo tra le parole che valorizza le parole stesse ed esprime ciò che da esse non può altrimenti essere espresso.

Mallarmé e Paul Simon: variazioni in merito al silenzio

La riflessione sulla valenza del silenzio ha un suo proseguimento, e valica i confini dell’ambito letterario fino a giungere alla musica leggera. L’accordo sospeso di seconda che introduce The Sound of Silence (1964), brano del duo folk statunitense Simon & Garfunkel, è probabilmente tra i più celebri e riconoscibili del panorama musicale contemporaneo.

Sulla scia di una visione “letteraria” della musica che coinvolge alcuni moderni troubadours come Bob Dylan o Leonard Cohen, il testo di The Sound of Silence presenta una straordinaria valenza poetica. Sarebbe semplicistico ridurlo a “poesia d’occasione” per l’uccisione di Kennedy (fatto, peraltro, smentito dallo stesso Paul Simon, autore del brano); è, piuttosto, un canto cosmico all’incomunicabilità.

Mallarmé
Paul Simon e Art Garfunkel in concerto alla Ohio University (ottobre 1968)

Sebbene il principio dell’indicibile sia quindi contingente alla riflessione mallarmeana, il silenzio dell’uomo novecentesco non è più lo stesso: è il rumoroso silenzio dell’atomica; è il silenzio forzato del top secret; ma, soprattutto, è il silenzio dell’individuo annichilito dalla massa. Il viaggio visionario di Simon non vede egli come protagonista, bensì lo stesso silenzio, entità onnipresente che padroneggia i rapporti tra gli uomini:

E nella luce vivida vidi
diecimila persone, forse più.
Persone che conversavano senza parlare;
persone che udivano senza ascoltare;
persone che scrivevano canti che quelle voci
non avrebbero mai condiviso:
e nessuno osava disturbare
il suono del silenzio.

Questo silenzio, che si trasfigura poi in un «Dio di neon» il quale scrive che «le parole / dei profeti sono scritte / sulle pareti delle metropolitane, / negli atri dei caseggiati», è conseguentemente deleterio; il suo suono è ben differente da quello che la Cecilia (santa protettrice della musica) di Mallarmé riproduce, in un mosaico, sulle ali di un cherubino:

Mallarmé
Carlo Saraceni, “Santa Cecilia e l’Angelo” (1610 ca.)

Nello strombo che accoglie
il vecchio sandalo che si sdora
della sua viola scintillante
un tempo con flauto e mandola,

sta la Santa pallida e mostra
il vecchio libro spiegato
del Magnificat sgorgante
un tempo a vespro e a compieta:

a quel cristallo d’ostensorio
che sfiora un’arpa dall’Angelo
formata nel volo serale
per la delicata falange

del dito che scende e risale
senza libro né vecchio strumento
sul melodioso piumaggio
musicante del silenzio.

Perché, allora, focalizzarsi su una connessione che pare limitarsi ad un ossimoro? Perché, analizzando l’approccio dell’uomo alla comunicazione (o, meglio, alla non comunicazione), appaiono evidenti i profondi solchi lasciati dagli sconvolgimenti novecenteschi.

Il silenzio, prima canale d’espressione dell’Assoluto e di esso contemplazione, è oggi disagio e incertezza; l’uomo, non più timoroso del metafisico né tanto meno desideroso di scandagliarne i limiti, teme piuttosto l’immensa moltitudine di propri simili che, minando la sua individualità, affolla il quotidiano.

Pierluigi Patavini

Fonti

  • Stephane Mallarmé, Poesie, traduzione di Luciana Frezza
  • Simon & Garfunkel, The Sound of Silence, traduzione di Ermanno Tassi (si è tuttavia preferito sostituire la parola “frastuono” alla più adeguata “suono”, N.d.R.)