Alfons Mucha (Ivancǐce, Moravia 1860 – Praga 1939) è stato senza dubbio uno dei principali esponenti dell’Art Nouveau. La sua fama è legata soprattutto alla produzione, a livello internazionale, di manifesti teatrali, illustrazioni per libri, cartelloni pubblicitari, e stampe alla portata di collezionisti di diversa appartenenza sociale.
Tuttavia, egli dimostrò il medesimo talento nel campo della pittura, ricevendo incarichi ufficiali, come nel caso della decorazione del Padiglione della Bosnia-Erzegovina nell’ ambito dell’Esposizione Universale di Parigi nel 1900; una rappresentazione della storia della Nazione in cui già si evidenzia quella fusione tra pittura storica, maniera illustrativa e decorazione ornamentale che ritroviamo nel lavoro per il nuovo Municipio di Praga (1909) e nel ben più monumentale lavoro dell’Epopea Slava.
Un progetto, quest’ultimo che Mucha aveva in mente già da tempo. Il suo obiettivo era quello di porre la propria esperienza al servizio di un’opera di più elevato impegno culturale e politico, che abbracciasse la sua passione patriottica e il desiderio di raccontare la storia del popolo ceco e slavo.
Il finanziatore fu un ricco uomo d’affari e filantropo americano, simpatizzante del popolo slavo che aveva stabilito relazioni diplomatiche con l’Europa Orientale: Charles R. Crane. Mucha così affittò un vasto ambiente all’interno del Castello di Zbiroh (in Boemia) per poter iniziare il suo lavoro e allestire le sue monumentali tele. Lo studio preparatorio delle scene da dipingere condusse l’artista ovunque potesse trovare spunti e idee, viaggiando in lungo e in largo tra la Polonia, la Serbia, la Bulgaria e la Russia, portandosi dietro un album da disegno e un apparecchio fotografico, in modo da poter fissare in immagine le architetture e i volti delle persone di cui avrebbe raccontato la cultura e la storia.
Il grande racconto si snoda lungo 20 dipinti, entro un preciso ambito cronologico che va dal III al XX sec. Le tele sono state suddivise dall’artista in temi religiosi, culturali e allegorici. Tra i primi, troviamo “Festa di Svantovit nell’isola di Rugen” (1915), dedicata al dio svevo primitivo Svantovit, rappresentato sotto le sembianze di una statua quadricefela, che i pellegrini in massa ogni autunno celebravano in occasione della festa del raccolto
“L’introduzione delle liturgia slava nella Grande Moravia” (1912) terza composizione, presenta il ritorno trionfale di Metodio (figura barbuta sostenuto da due dei suoi seguaci) da Roma, colui che aveva contribuito insieme all’altro monaco Cirillo alla diffusione del cristianesimo in lingua slava su invito del principe della Moravia. In primo piano, una figura di un giovane con un pugno chiuso e un cerchio nella sua mano destra che simboleggia la forza e l’unità del popolo slavo.
Superba la tela a tema allegorico “L’abolizione della schiavitù” (1914). In Russia, Mucha scopre l’immensa povertà e sofferenza del popolo, e anche se lo Zar Alessandro II in seguito al suo insediamento nel 1855 istituisce una serie di riforme, tra cui quella appunto dell’emancipazione della schiavitù nel 1861, grazie alla quale i servi russi furono “liberi”, nel quadro non sembra emerge la vera consapevolezza portato da questo editto. Tra la fitta coltre di nebbia, uno spiraglio di sole lontano si fa strada, simboleggiando il debole barlume di speranza per un futuro migliore e luminoso per le generazioni future.
Il cerchio si chiude infine con “Apoteosi degli slavi” (1926), in cui Mucha cerca di riunire tutti i temi affrontati negli altri episodi e celebra l’indipendenza delle nazioni slave. Domina al centro la figura forte a torso nudo, simbolo della nascente Repubblica, protetta alle spalle dalla figura di Cristo. Sempre al centro, accesi da una luce gialla, soldati cechi e slovacchi di ritorno dalla I° guerra mondiale, che segna il crollo dell’impero austro-ungarico, conducono il loro popolo verso l’alba di una nuova era.
Il ciclo monumentale fu concluso nel 1928, e per volere di Mucha donato alla città di Praga, in occasione del 10° anniversario dell’indipendenza della Cecoslovacchia. Portato inizialmente nel Palazzo dell’Industria, durante il periodo nazista l’Epopea dovette restare nell’ombra; le tele allora furono arrotolate e riposte in vari magazzini per sfuggire alla furia dei tedeschi. Nel dopoguerra trovarono una nuova sistemazione nel castello di Moravksy Krumlov (Moravia), fino a quando, a seguito di lunghe discussioni, non sono finalmente ritornate a Praga negli ultimi anni e collocate presso la Galleria Nazionale- Palazzo delle Fiere (Veletržní Palác).
Marina Borrelli