Ludovico Ariosto fu un artista poliedrico e amante del teatro classico. Le sue commedie sono un affresco sulla Ferrara popolare del primo Cinquecento
“L’amante per aver quel che desia/senza guardar che dio tutto ode e vede/aviluppa promesse e giuramenti/che tutti spargon poi per l’aria i venti” [1]
Al tempo delle guerre d’Italia, dei turbamenti politici che avevano portato instabilità e sofferenza, degli intrighi e alleanze d’occasione che i sovrani europei avevano stretto per garantirsi maggiore potere, ci fu qualcuno che preferì cantare l’ironia della vita e l’ipocrisia dei rapporti in società.
Ludovico Ariosto fu un artista lungimirante, in rotta di collisione col modo di poetare precedente. L’ironia pungente e sagace attraverso cui narrò il mondo ha offerto ai posteri un affresco interessante e quantomai divertente sulla realtà della Ferrara cinquecentesca, dominata dalla famiglia degli Estensi. L’amore per la sua città d’origine emerge come un fiume in piena, ma Ariosto ha parlato anche del suo oscuro, quello crudele e intricato che tesseva trame all’ombra.
Fra intrecci amorosi, sordide tresche e vecchi lenoni, ecco che i personaggi delle commedie di Ariosto prendono vita.
Ariosto e le commedie di gioventù
Le commedie di Ariosto segnarono la nascita del nuovo teatro volgare. Animato dalla vivacità culturale che circondava la corte estense, sviluppò fin dagli anni della giovinezza il gusto per il teatro e le sue origini classiche. Ariosto compì i primi passi in quest’ambiente con la Tragedia di Tisbe, risalente agli ultimi anni dell’400 quando non aveva compiuto ancora vent’anni. La tragedia è andata perduta, ma appare chiaro il riferimento alla latinità, nel caso di specie con le Metamorfosi di Ovidio.
Un piccolo cammeo, dunque, volto a celebrare quel tanto sospirato amore di due giovani, Piramo e Tisbe, avversi dal destino e dalla rivalità delle rispettive famiglie. E non è un caso che questo tipo d’intreccio abbia molti punti di contatto con la celeberrima tragedia shakespeariana Romeo e Giulietta.
Ma già tra il 1508 e il 1509 Ariosto era pronto per una composizione più matura e immancabilmente segnata dal lieto fine. La stagione delle commedie viene inaugurata con La Cassaria, seguita subito dopo da I Suppositi. In questa prima fase teatrale Ariosto mostra tutto il suo legame con gli autori latini che ne costituiscono il paradigma: Plauto e Terenzio. E così ritornano a calcare la scena l’eterno conflitto tra i vecchi, egoisti e libidinosi, e i giovani amanti che si avvalgono dell’aiuto di servi scaltri per salvare le fanciulle date in pasto ai primi.
La Cassaria racconta le vicende di due amici, Erofilo e Caridoro, innamorati di due schiave in possesso di un lenone. Ambientata nell’antica città greca di Metellino, ritornano gli equivoci, gli scambi di persone e tutta una serie di elementi topici del teatro latino. Palpabili sono i rimandi all’Eunuchus di Terenzio, alla Cistellaria di Paluto, e la lista sarebbe lunga.
E la commedia degli equivoci continua ne I Suppositi. La novità adesso è costituita dall’ambientazione: non più le città greche ma la Ferrara del cinquecento, che fa da sfondo al turbolento amore fra Erostrato e Polinesta, il cui padre non vuole benedire l’unione. Il quotidiano è descritto in tutta la sua crudeltà, esasperato dalla finzione teatrale che prende il sopravvento sulla realtà storica, consegnando l’immagine di una Ferrara trasfigurata e dominata dal caos.
Segue questo schema anche un’altra commedia, Gli Studenti, rimasta incompiuta.
La perfezione della forma: le commedie degli anni ’20
La perfezione della forma è raggiunta con la Lena, commedia composta nel 1528. Protagonista indiscussa è una donna alle prese con la sua attività di maitresse e le proprie avventure galanti. Suo marito Pacifico – non solo di nome – gliele fa passare tutte, e Lena, offuscata dalla vendetta contro chi aveva osato imbrogliarla, è descritta da Ariosto come un personaggio rancoroso e continuamente insoddisfatto.
Lena si lamenta e si duole della materialità che corrode i rapporti umani, e proprio le sue inquietudini sono divenute espressione chiave della realtà quotidiana ferrarese. Il più riuscito personaggio teatrale di Ariosto non poteva smentirsi alla fine, e perciò il suo lieto fine coincide con un bel gruzzolo di monete.
Ultima commedia, ma non per importanza, è Il Negromante. Ad onor del vero fu composta nel 1509, ma Ariosto la rimaneggiò più volte e la sua prima rappresentazione teatrale avvenne qualche anno più tardi, nel 1528. Questa volta l’azione si sposta nella città di Cremona, e la vicenda segue ancora gli spasmi d’amore di Cintio, diviso tra il senso del dovere, rappresentato dal matrimonio combinato con una ereditiera, e la purezza del sentimento che lo lega ad una ragazza povera.
A parte tutti i cliché letterari che abbiamo visto finora, è proprio il personaggio del negromante, da cui prende il nome l’intera commedia, a dare un certo spessore alla trama. Un altro imbroglione, che Ariosto ripesca, questa volta, da un’altra commedia simbolo del ‘500: la Mandragola di Machiavelli.
Roberta Fabozzi
[1] Ludovico Ariosto, Orlando furioso, canto X, ottava V, vv 5-8, Mondadori