Nel 1968, nelle sale cinematografiche di tutto il mondo, veniva proiettato 2001: Odissea nello spazio. Quattordici anni dopo Blade Runner faceva il suo ingresso nel mondo del cinema. Questi film oltre ad avere in comune il supervisore degli effetti speciale Douglas Trumbull e il fatto di essere ispirati entrambi a due libri, condividono le prime posizione tra i film che più hanno cambiato il modo di fare cinema.
Se la pellicola di Kubrick, un’opera intensa, filosofica e indecifrabile, con la sua perfezione tecnica e stilistica ha catturato e appassionato generazioni di cinefili, Blade Runner è diventato l’emblema di un cinema inteso come macchina dell’illusione, un cinema che si propone di colpire lo spettatore con la forza e la bellezza delle immagini, proponendo un viaggio in un futuro contraddittorio, in contrasto con un passato che resiste negli appartamenti di una Los Angeles immersa nel bagliore delle luci e in un melting pot di etnie e sottoculture.
Los Angeles, 2019. Le strade sono popolate da una bizzarra confusione di etnie in cui sembra prevalere quella asiatica, mentre i bianchi vivono in palazzi dalle complesse architetture. Il resto degli umani ha abbandonato la Terra per spostarsi nelle colonie dell’extra-mondo. Per renderle vivibili, sono stati progettati i replicanti, organismi creati dagli umani e identici ad essi, che lavorano nelle colonie come schiavi. È loro assolutamente vietato accedere sul nostro pianeta. Ma un gruppo di replicanti della classe Nexus 6 fugge da una stazione spaziale e torna sulla Terra.
La sezione di polizia denominata “Blade Runner” richiama in servizio Rick Deckard (Harrison Ford), un tempo il migliore nel suo campo, per dargli la caccia e “ritirarli” dal mercato (cioè ucciderli). Deckard si avventura così per le strade e i cieli di Los Angeles, dove incontrerà Rachael (Sean Young) fino a giungere al memorabile incontro con Roy (Rutger Hauer).
Blade Runner, macchina delle illusioni
Ispirato al romanzo Ma gli androidi sognano pecore elettriche? di Philip Dick, Blade Runner fu un flop commerciale, qualcosa che oggi appare inspiegabile. Il film, infatti, si pose subito come pietra miliare del genere fantascientifico. Accompagnato dalla straordinaria colonna sonora composta da Vangelis, l’opera di Scott è un intreccio di architetture, culture, generi cinematografici, simboli, una tale mescolanza di elementi che la rendono un’opera autentica.
Lungi dal non accorgersi dell’ispirazione allo stile figurativo di Metropolis, Scott riesce a creare un’atmosfera noir in un futuro temporalmente lontano. Il domani presentatoci da Scott è caratterizzato da un senso di solitudine, una società freddamente orwelliana, un’umanità lasciata a se stessa che ha perso qualcosa, un qualcosa accecato dalle luci della tecnologia e nascosto nel buio che non abbandona mai Los Angeles, quasi come una malattia inguaribile.
Tema molto importante in Blade Runner è la (in)capacità di vedere. L’occhio e i ricordi derivanti dal vedere sono quasi un’ossessione in questo film. Fin dalle sequenze iniziali in campi lunghi e lunghissimi della megalopoli, c’è un occhio che osserva le luci di Los Angeles, come un occhio artificiale è quello che osserva la pupilla di Leon. Un occhio che sembra diventare un universo indipendente, superficie in cui si incontrano microcosmo e macrocosmo.
Scena significativa a tal proposito è quella dell’interrogatorio, qui infatti c’è un accostamento tra l’occhio e la videocamera; quindi tra natura e tecnologia. In questa scena si può vedere come le due immagini si dissolvono una nell’altra, quasi a voler affermare la dipendenza di uno dall’altro. All’interno della contraddizione c’è la conclusione che occhio e telecamera sono entrambi luogo di scambio interno ed esterno e producono qualcosa di diverso dalla semplice osservazione della realtà.
Le profonde tematiche trattate, avvolte da una stile visivo cupo e pessimista, hanno contribuito al flop di Blade Runner negli anni ottanta. Del resto quelli erano gli anni dominati da Star Wars da una parte e da ET dall’altra, il pubblico non era ancora pronto ad approcciarsi ad uno sci-fi che si proponeva di affrontare questioni complesse con uno stile innovativo, uno stile appunto reso secondo la nuova concezione di cinema come macchina dell’illusione.
Un nuovo tipo di arte questa, molto criticata in quanto ritenuta responsabile di anteporre la forma al contenuto, di preferire la spettacolarizzazione all’arte autentica, una critica che non risparmiò nemmeno l’opera di Terry Gilliam Brazil. Blade Runner fu elogiato dal punto di vista scenografico e visivo ma secondo alcuni ciò non era sufficiente a giustificare l’allontanamento dall’arte autentica. Scott dal canto suo rispose ai critici affermando: “Sometimes the design is the statement”.
Alla fine, da qualsiasi punto di vista la si guardi, quest’opera resta impressa nella memoria collettiva non soltanto per la sua capacità di rappresentare la grandezza e la magnificenza del cinema, ma anche per il suo carattere visionario, arrivando a diventare un punto di riferimento per molti film successivi, basti pensare ad opere come Brasil, Terminator, fino ad arrivare a 1997: fuga da New York.
Impossibile dimenticare le scene finali: il monologo di Roy Batty e il ritrovamento dell’origami a terra che insinua il dubbio che anche Deckard sia un replicante. Un film questo, che come il suo “padre ideale”, Metropolis, non stanca mai e continua a sorprendere generazioni e generazioni di cinefili, registi e amanti del cinema da tutto il mondo.
Roberto Carli