Jorge Luis Borges è fautore di una seminale dialettica narrativa che intreccia la realtà con la finzione fino ad offuscare i confini di entrambe.
Non v’è uomo che, fuori della sua specialità, non sia credulo (…) [1]
Nel multiforme macrocosmo letterario, accade non di rado che realtà e finzione, più che separate da un confine invalicabile, siano complementari; dov’è che, eppure, esse si congiungono alchemicamente? Con la sua produzione prosastica, Jorge Luis Borges (1899 – 1986) conia una dialettica narrativa innovatrice.
La fictio nei racconti di Borges
Lo scrittore argentino, nei suoi racconti (il racconto, per la sua brevitas, è la sua tipologia di narrazione prediletta: «La forma letteraria perfetta può essere soltanto il racconto, che permette di concentrarsi direttamente sull’essenziale, come fa la poesia» [2]), adotta uno stile asciutto e rigoroso, ponendosi sovente come vero e proprio cultore del patrimonio umanistico e teologico globale.
Questo, oltre ad essere essenzialmente un tratto autobiografico, si rivela un sagace espediente nell’economia dei racconti: forte della sua invidiabile erudizione, Borges ammalia e stupisce il lettore mescolando dati concreti con avvenimenti fittizi, attingenti in gran parte dei casi alla dimensione del surreale.
Ma il surreale di Borges, sulla scia di quello di Kafka, s’adagia efficacemente anche sul quotidiano grazie alla sprezzatura dell’autore stesso, tanto da acuire la sospensione volontaria dell’incredulità. Il potere della sua penna, insomma, risiede nel donare il carattere della verosimiglianza a situazioni apparentemente avulse dal verosimile.
I colori tematici che si celano dietro il sipario borgesiano sono molteplici. Il labirinto (Il giardino dei sentieri che si biforcano; La biblioteca di Babele), la memoria (Lo Zahir; Funes o della memoria), l’identità (I teologi) sono tra gli elementi costitutivi di una vera e propria «foresta di simboli» (citando Baudelaire) la cui meticolosa catalogazione risulterebbe prolissa. Basti pensare che, nell’avvicinarsi al corpus narrativo dell’autore, occorre essere preparati ad un’opera monumentale che canalizza ogni possibile influenza culturale collocandola in un mondo che a tratti sfugge persino ai confini dell’immaginazione.
L’Aleph: metafisica e suggestioni dantesche
La prima lettera dell’alfabeto ebraico, l’aleph, è simbolo dell’unità e del principio. Questa acquisisce un significato assolutamente peculiare se analizzata secondo il paradosso, vivo dalla genesi della letteratura, dello scrittore con la pretesa di rappresentare su carta l’Universo nella sua complessità.
L’Aleph, racconto che dà il titolo all’omonima raccolta, presenta un cominciamento ironico che non lascia presagire risvolti metafisici di alcun tipo: Borges-personaggio, poco dopo la morte della sua amata Beatriz Viterbo, si ritrova coinvolto a malincuore in un infecondo rapporto intellettuale col cugino di lei, Carlos Argentino Daneri, poeta dozzinale intento nella stesura di un poema che raffiguri il globo nella sua totalità, La Terra.
Carlos, costretto a lasciare casa per far posto ad una pasticceria, teme di perdere con essa l’Aleph, punto nella sua cantina dal quale è possibile scorgere «tutti i luoghi della terra, visti da tutti gli angoli». Quelli che appaiono a Borges come meri deliri di un folle si rivelano piuttosto incipit di un’esperienza totalizzante.
Si è già detto che la comunicazione dell’impossibile è vero e proprio leitmotiv di ogni canone letterario; ed il nome del nostrano Dante è quello che in tale ambito risuona con maggiore eco. Borges, affascinato per la vita dallo spazio della Commedia, tenta probabilmente con L’Aleph di offrire al lettore una seppur minima cognizione dell’impossibilità della rappresentazione del Tutto, alla quale eppure il sommo poeta si avvicinò; l’omonimia tra l’amata di Borges-personaggio e la Beatrice dantesca parrebbe confermare l’intento.
Arrivo, ora, all’ineffabile centro del mio racconto; comincia, qui, la mia disperazione di scrittore. Ogni linguaggio è un alfabeto di simboli il cui uso presuppone un passato che gl’interlocutori condividono; come trasmettere agli altri l’infinito Aleph, che la mia timorosa memoria a stento abbraccia? [3]
È il dubbio che Dante regolarmente si pone nella Commedia («Trasumanar significar per verba / non si porìa» [4]); è la limitazione maggiore che lo scrittore teme e riverisce, di fronte alla quale l’unico mezzo di comunicazione lontanamente efficace rimane l’approccio sensoriale, che mediante la tecnica mimetica ripropone gli impulsi basici dell’esperienza umana.
(…) vidi la circolazione del mio oscuro sangue, vidi il meccanismo dell’amore e la modificazione della morte, vidi l’Aleph, da tutti i punti, vidi nell’Aleph la terra e nella terra di nuovo l’Aleph e nell’Aleph la terra, vidi il mio volto e le mie viscere, vidi il tuo volto, e provai vertigini e piansi, poiché i miei occhi avevano visto l’oggetto segreto e supposto, il cui nome usurpano gli uomini, ma che nessun uomo ha contemplato: l’inconcepibile universo. [5]
L’unico carattere di pura umanità che si preserva in una situazione oltreumana è lo spettro delle sensazioni. Dante, che così introduce la visione della luce divina, ne è ben consapevole:
Da quinci innanzi il mio veder fu maggio
che ‘l parlar mostra, ch’a tal vista cede,
e cede la memoria a tanto oltraggio.Qual è colui che sognando vede,
che dopo ‘l sogno la passione impressa
rimane, e l’altro a la mente non riede,cotal son io, ché quasi tutta cessa
mia visione, e ancor mi distilla
nel core il dolce che nacque da essa. [6]
Pierluigi Patavini
Fonti
[1] J. L. Borges, Il miracolo segreto, da Finzioni, trad. di Franco Lucentini, ed. Einaudi 2014, pag. 135
[2] Affermazione tratta da un’intervista a Borges e rintracciata nell’articolo di Raffaele La Capria Elogio della brevità alla Hemingway, dal Corriere della Sera del 06/02/2008
[3] J. L. Borges, L’Aleph, da L’Aleph, trad. di Francesco Tentori Montalto, ed. Feltrinelli 2013, pag. 164
[4] Dante Alighieri, Paradiso, canto I, vv. 70-71
[5] J. L. Borges, L’Aleph, da L’Aleph, trad. di Francesco Tentori Montalto, ed. Feltrinelli 2013, pag. 167
[6] Dante Alighieri, Paradiso, canto XXXIII, vv. 55-63