Sembrava che in Africa la stagione dei colpi di stato e dell’instabilità politica fosse finita. Invece, giorni fa, in Burundi, una parte dell’esercito, comandata dal generale Niyombare, ha annunciato il colpo di stato. Complice la trasferta in Tanzania del presidente Nkurunziza, i golpisti hanno chiuso gli scali aeroportuali, impedendogli il ritorno in patria. Burundi
In realtà, nella confusione del momento, non si è capito chi controllasse cosa. Il presidente Nkurunziza è ritornato in patria via terra. Dalla provincia di Ngozi, in cui risiede il suo clan di appartenenza, ha guidato la controffensiva al colpo di stato, potendo contare su altri generali dell’esercito a lui fedeli. Un rapido epilogo della vicenda: infatti, i generali golpisti si sono arresi e Nkurunziza ha potuto sfilare a Bujumbura, accolto da folla in festa – stesse scene viste durante la presa del potere dei golpisti – che adesso teme le rappresaglie.
Burundi: uno stato corrotto
Ma le proteste non si fermano. La gente continua a manifestare perché non vede di buon occhio la scontata rielezione di Nkurunziza: teoricamente non potrebbe presentarti per concorrere a un terzo mandato. La Costituzione lo esclude, ma, una sentenza dell’Alta Corte ammette questa possibilità. Il vicepresidente della massima autorità giudiziaria, però, è fuggito all’estero, denunciando di aver ricevuto fortissime pressioni e minacce di morte perché contrario ad un terzo mandato del presidente. Pierre Nkurunziza difende la sua scelta di ricandidarsi per la terza volta perché sostiene che in realtà rappresenta un secondo mandato: il primo – dal 2005 al 2010 – non è stato stabilito tramite volto popolare, ma da un incarico istituzionale scaturito dopo la lunga guerra civile – dal 1993 al 2009 – che ha provocato un silente genocidio.
Il Burundi è il quinto stato più povero al mondo: alle scarse risorse naturali si uniscono le responsabilità dell’élite politica, una delle più corrotte al mondo che non riesce a dare risposte concrete per risolvere i problemi del paese.
Dietro le quinte dello scontro tra la società civile, vera anima delle proteste in nome del cambiamento, e il presidente si nascondono interessi geopolitici regionali: dal Congo, alla Tanzania fino al Kenya, tutti stati interessati alla regione dei grandi laghi. Si teme anche per gli attentati: il Burundi ha partecipato alla forza dell’Unione Africana per sostenere il governo federale di Mogadiscio in Somalia. Fonti dell’intelligence sostengono che le milizie estremiste di Al-Shabab possono approfittare dell’instabilità per continuare a destabilizzare la situazione.
La diplomazia internazionale si fa sentire tramite il Dipartimento di Stato degli Stati Uniti, ufficialmente contrario ad un terzo mandato del presidente, che si sta preoccupando di evacuare il proprio personale diplomatico e quello degli altri stati occidentali. Burundi
Le repressioni sanguinose della polizia e le possibili rappresaglie dell’esercito lealista contro i golpisti hanno aumentato il flusso di rifugiati: secondo l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, sarebbero almeno 150mile le persone in direzione verso il Ruanda, la Tanzania e il Congo, un numero destinato inesorabilmente a salire. C’è il rischio anche di epidemie: i campi profughi messi a disposizione dai paesi confinati sono insufficienti e carenti dal punto di vista igienico e sanitario. L’Unicef e l’UnHcr chiedono fondi e un corridoio umanitario. Burundi
Una questione etnica? Burundi
Sembra che, ancora una volta, all’origine degli scontri, ci sia la questione irrisolta tra Tutsi e Hutu.
Secondo gli accordi di Arusha (Tanzania) del 2000, si prevedeva la creazione di un periodo transitorio di tre anni duranti il quale per i primi 18 mesi sarebbero stati al governo i Tutsi – il 14% della popolazione – mentre per i restanti 18 gli Hutu – l’85% della popolazione. Dopodiché, si sarebbero svolte libere elezioni democratiche. Nonostante ciò, due gruppi ribelli Hutu – Front National de Liberation e il Front pour la Défence de la Démocratie – non hanno firmato gli accordi.
Accordi, ovviamente non rispettati, tanto che il presidente Nkurunziza è stato eletto due volte consecutive, tra violenze e brogli. Il generale golpista aveva chiesto al presidente, nei mesi scorsi, di rinunciare ad un terzo mandato per evitare di risvegliare vecchi rancori tra Tutsi e Hutu. Gli accordi di Arusha stabiliscono anche delle “quote etniche” nelle istituzioni e nelle forza armate. Nonostante ciò, il partito al potere – Consiglio Nazionale per la Difesa della Democrazia-Forze per la Difesa della Democrazia – ha instaurato un regime dal 2005, impoverendo le masse contadine Hutu e discriminando la minoranza Tutsi.
Quindi, al momento, la sfida non è etnica dato che i manifestanti sono sia Tutsi che Hutu e, insieme, formano una “comunità senza nome” che riunisce la società civile, l’opposizione, le classi più povere e anche una piccola parte della Chiesa cattolica, delusa dal drastico cambiamento del presidente, sempre più vicino alle posizioni della Chiesa protestante.
Il 26 maggio si sarebbero dovute tenere le elezioni legislative e il 26 giugno quelle presidenziali. Ma, in una situazione di caos del genere, non si sa quale deriva possa prendere il Burundi, considerando la lotta senza quartiere per la conquista del potere. E l’etnia è soltanto un pretesto: Tutsi e Hutu fanno parte del governo che sostiene il presidente, così come l’esercito è spaccato non tra etnie, ma tra lealisti e golpisti. Una frattura tra le forze armate che non può che peggiorare già la delicata e controversa situazione.
Marco Di Domenico
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