La Repubblica Popolare Cinese, negli ultimi tre decenni, è stata caratterizzata da una crescita economica strabiliante ed ha affrontato senza intoppi la transizione che ha trasformato un’economia pianificata di stampo socialista in un’economia di mercato. Nonostante tale crescita abbia migliorato la qualità di vita di molti cinesi, essa non è stata in grado di risolvere le diseguaglianze tra Cina rurale e Cina urbana. Stando ai dati forniti dalla Banca Mondiale, infatti, la Cina attualmente appartiene al quarto di mondo caratterizzato da maggiori diseguaglianze.
Quando si parla di diseguaglianze tra Cina rurale e Cina urbana non ci si riferisce soltanto al reddito pro capite, che pure è un indicatore importante. I cinesi delle campagne e quelli delle città, infatti, hanno possibilità diverse anche per quanto concerne l’accesso alle cure mediche, al sistema educativo e ad ogni tipo di previdenza sociale.
Diseguaglianze del genere, tuttavia, non sono imputabili soltanto alla maggiore povertà che in tutti i Paesi, anche quelli più sviluppati, caratterizzano le zone rurali. In Cina, infatti, tali differenze fanno parte di un disegno ben preciso che risale al periodo post-rivoluzionario.
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Il maoismo e la Cina feudale
Quando, nel 1911, in Cina si sgretolò il sistema imperiale e venne fondata la Repubblica, il Paese aveva una struttura ancora sostanzialmente feudale. All’arrivo dei comunisti, nel 1949, la situazione non era cambiata di molto, e a ciò si aggiungeva il fatto che la Cina aveva vissuto lo strazio delle guerre e delle invasioni straniere.
Il presidente Mao, leader assoluto dalla fondazione della RPC al 1976, si trovò dunque di fronte una situazione catastrofica: una popolazione affamata e analfabeta, un territorio vastissimo e diviso a causa degli strascichi feudali e, soprattutto, uno Stato ancora molto vulnerabile e suscettibile di essere invaso ancora nell’immediato futuro. Che fare? La risposta venne trovata nello sviluppo economico.
Il primo piano di industrializzazione della Cina
Mao, nel proprio tentativo di industrializzare rapidamente la Cina, guardava all’esperienza sovietica e ne trasse spunto.
La situazione di partenza, tuttavia, non era affatto semplice: oltre il 90% della popolazione viveva nelle zone rurali (poche erano le città degne di questo nome) e l’agricoltura era il settore principale nella composizione merceologica del PIL.
Si pensò, dunque, di intervenire sulla ragione di scambio tra agricoltura e industria: essendo la ragione di scambio intesa come prezzo del bene venduto espresso in unità di bene acquistato, ciò che si fece fu, in parole povere, abbassare i prezzi dei prodotti agricoli rispetto a quelli industriali. In questo modo si verificò un flusso di risorse che passò dall’agricoltura all’industria, potenziandola.
L’intervento del nuovo governo, tuttavia, non si limitò a questo: venne, infatti, creato anche un reticolo amministrativo che separava le zone rurali da quelle urbane, le quali finirono con avere regole e amministrazioni del tutto diverse. A ciascuna delle due categorie veniva destinato un quantitativo prestabilito di fondi ed esisteva uno stretto controllo su qualunque flusso degli stessi tra aree rurali e urbane.
Benché la “campagna” fosse idealizzata di continuo come culla della rivoluzione (ciò soprattutto durante la Rivoluzione Culturale, quando i giovani intellettuali venivano forzati a trasferirsi in campagna a lavorare con i contadini) le diseguaglianze si acuirono rapidamente: le condizioni degli abitanti delle città e quelle dei contadini divennero tanto evidentemente diverse che alla fine degli anni ’60 persino Bo Yibo, celebre economista ed esponente di spicco del PCC, ne parlò pubblicamente.
Deng e la Cina dello sviluppo duale
A partire dal 1978, anno dell’arrivo di Deng Xiaoping al potere, lo scenario si fece più complicato. Obiettivo principale della nuova classe dirigente fu ridurre la povertà, obiettivo che, grazie al loro programma di Riforme e Apertura, può dirsi raggiunto: il numero di cinesi in povertà assoluta è passato dai 250 milioni nel 1978 a 80 milioni nel 1994 (dati della Banca Mondiale).
Le differenze tra Cina rurale e Cina urbana, tuttavia, sembrano essersi acuite ulteriormente. Il grafico che segue mostra la crescita del valore del coefficiente di Gini in Cina dal 1981 ai giorni nostri. Il coefficiente di Gini misura la diseguaglianza nella distribuzione ed è rappresentato da un numero tra 0 (perfetta uguaglianza) e 1 (massima diseguaglianza). Uno sguardo a tale grafico dà un’idea dell’aggravarsi della situazione, senza alcuno spiraglio di miglioramento.
L’atteggiamento dell’attuale governo cinese è ambiguo: si parla molto spesso di riduzione delle diseguaglianze ma il discorso viene spesso portato sulla necessità di una riduzione ulteriore dei livelli di povertà più che di uguaglianza tra le parti.
Dato che per la Cina è attualmente necessario incrementare i consumi interni al fine di contare meno sulle esportazioni, sarebbe opportuno operare su una distribuzione più omogenea di risorse e welfare. Benché ciò sembra ancora lontano dalla realizzazione, arriverà un momento in cui un’operazione del genere sarà probabilmente necessaria a evitare che il sistema economico cinese entri in crisi.
Francesca Salvati
Fonti
http://documents.worldbank.org/curated/en/1992/06/736636/china-strategies-reducing-poverty-1990s